brano tratto dal libro: CAPITOLO I - LA FINE DEL RAMADAN

brano tratto dal libro: CAPITOLO  I  -  LA FINE DEL RAMADAN

 

CAPITOLO   I°    - La fine del Ramadan

"Per maturare i suoi frutti, la palma deve avere i piedi nell'acqua e la testa nel fuoco" - proverbio arabo

 

Un colpo di cannone partì dal ribat, piccolo forte costiero e rimbombò sulle verdi acque del porto annunciando la fine del Ramadan e le celebrazioni del Bayran, la fine del mese della quaresima musulmana.

“Lailaha illaallah Maummad Rasulu Allah!” cantilenava il muezzin dall’alto del minareto della Moschea che il sultano di Doha aveva fatto innalzare più per la sua gloria che per quella di Allah.

Le incerte luci del nuovo giorno sorpresero gli ultimi spettatori di una notte di follie offerta da fanatici dervisci i quali avevano atteso un anno intero per dar prova,  con scene da raccapriccio, della loro incondizionata dedizione di sé a Dio.  Poi la notte tacque e si assopì; l’aria si fece luminosa e la costa fiammeggiò. Tacquero anche flauti e tamburi.  Ma il silenzio fu breve. Nuovi rumori invasero l’aria, acuti e squillanti: i corni di caccia di Sayed Alì, il Sultano di Doha.

Fin dai tempi del Profeta la caccia col falcone è sempre stata l’attività venatoria preferita degli Arabi e un drappello di  cavalieri era lanciato al galoppo nella solare distesa di sabbia alle spalle della città.

Gli arabi hanno nel sangue la passione per i cavalli. Splendido animale, il cavallo arabo è il migliore della specie per eleganza e armonia di forme; era ed è vanto ed orgoglio di ogni cavaliere.

“Dio prese una manciata di vento del Sud e creò il cavallo:” recita il Corano.

Correvano, cavallo e cavaliere e parevano una sola    creatura, tanto era armonico e completo il loro rapporto. Correvano, in uno svolazzare di mantelli e criniere, avvolti in una nuvola di polvere iridescente, dietro uno stormo di falchi in volo sulle tracce di un branco di gazzelle.  Lanciati nel cielo, i falchi spiavano ogni duna, ogni buca, ogni cespuglio.

Alla fine avvistarono la preda in mezzo al branco: un giovane maschio che cercava scampo ad un’inevitabile fine con una disperata quanto inutile fuga. Furono gli slughi, però, i famosi levrieri del deserto, che braccarono la preda fino all’arrivo dei cavalieri.

“A voi l’onore del colpo di grazia, principe Ben.” il sultano si girò verso il giovane alla sua sinistra.

Venticinque o ventisei anni, fisico atletico, il giovane cacciatore portava alla mente l’immagine degli antichi guerrieri celti avversari dei Cesari; gli occhi, sotto il mindil trattenuto sulla fronte da un cordone di pelle, erano scuri e penetranti.

Egli guardò la bestia agonizzante, poi scosse il capo.

“All’ospite di questa terra, l’onore, Altezza.” disse, facendo convergere lo sguardo verso l’orizzonte occupato da ruderi d’avamposti in disuso, testimonianze di passaggio e dominio straniero.

Edward Honey, l’ospite del sultano, accolse la provocazione:
“Un ospite più gradito di quel predone che si aggira tra queste dune, io spero!” replicò.

Honey, dell’esercito di Sua Maestà Britannica, era in visita non ufficiale a Doha: l’Inghilterra, che già aveva stretto un Trattato con il sultano del Bahrein, non nascondeva le mire espansionistiche anche sul Qatar dove il legittimo sovrano era stato spodestato da una congiura di palazzo e il Paese spinto verso l'orlo di una guerra civile.

Honey assomigliava ad un ritratto sbiadito: sbiadito il colore rossiccio di ciglia e capelli, sbiadito quello marrone degli occhi, sbiaditi i contorni del volto, abbozzati da una rada barbetta. Al contrario delle insignificanti caratteristiche del volto, il fisico era corpulento e massiccio.

“Ah! – proruppe il sultano – Quel predone! Che Allah lo fulmini!”
“I beduini  sono pastori e razziatori per cultura e la loro arretratezza materiale e spirituale…” cominciò Honey, il cui tono stesso delle parole era di per sé una risposta alla provocazione del principe.

Ben, però, le stroncò subito mentre intorno a loro era un solo fremito di ali: i falchi che tornavano ai padroni.

“Razziatori, forse, ma liberi e indipendenti. – ribadì -… come ben sapete, maggiore.”  aggiunse in tono mordace,  accogliendo sul braccio guantato il suo falco, uno splendido animale dallo sguardo rapace e corrucciato come quello del  padrone

“Il maggiore ha ragione! – interloquì il sultano arrestando il suo cavallo – I predoni del deserto sono una minaccia costante alle nostre carovane ed il Rais dei Kinda… che l’Inferno l’inghiotta… è una spina nel fianco.”

“Lo erano anche i Pirati della Costa prima dell’intervento diplomatico del mio Paese.” intervenne Honey.

“Vale a dire?” chiese Ben, in coda,  arrestando anch'egli il suo cavallo che scalpitò prima di fermarsi.

“Vale a dire, Altezza, - il maggiore si girò verso di lui - che il trattato di Amnistia stipulato dalla Corona Britannica con i Pirati della Costa…”

“Amnistia? –  Ben non gli consentì di  proseguire – Vorrà dire un prezzo da pagare. - aggiunse in tono sempre più provocatorio, facendo convergere sulla faccia sbiadita dell'europeo il suo sguardo acuto  - Che cosa chiede, che non ha ancora chiesto, la Vostra Graziosa Maestà, in cambio  della sua protezione?” domandò.

“I Protettorati godono degli stessi privilegi della Madre Patria.” replicò il maggiore.

“Deve essere così! – assentì Ben con insostenibile ironia, poi aggiunse - I Beduini, però, sono assai attaccati alla loro libertà… Non sarà facile addomesticare il Rais dei Kinda con le vostre  amnistie.”

Preoccupato della piega che stava prendendo quella conversazione, il sultano dette fiato al corno ricoperto d’oro ed annunciò la fine della caccia.

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Alcanna. Con questo termine gli Arabi indicano sia il giardino che il Paradiso.

Il Sultano del Qatar s’era fatto costruire sulla parte più alta della collina, su cui si stendeva la città, una cittadella fortificata di mirabile struttura architettonica che aveva voluto chiamare Ambra, cioè, Palazzo-Rosso. Un vero Paradiso: padiglioni ombreggiati, pareti meravigliosamente intagliate, selve di colonne svettanti verso il cielo e sulla facciata centrale, un muro di cristallo  con tanti fori quante sono le ore in cui il sole, entrando, permetteva di leggere il tempo a grandi distanze.

Erano i giardini, però, la gloria di quel palazzo: fontane zampillanti e profumi di piante e fiori che facevano dimenticare il mondo arido fuori le mura.

Nella parte più interna del palazzo, una ragazza sostava all’ombra di una colonna. Seduta sul bordo di una vasca che ospitava ninfee e loti, guardava oltre la siepe della balaustra rossa di bacche carnose e verde di foglie rigogliose; guardava i tetti delle case, i pinnacoli dei minareti, le strade. 

Diciassette o diciotto anni, era snella ed armoniosa nei tratti del corpo, che si indovinavano sotto la veste  di broccato che lei stessa aveva intessuto nelle lunghe ore della sua laboriosa giornata, perché la donna islamica non trascorreva mai in ozio il suo tempo…  a meno che non facesse parte di quella folta schiera che popolava un harem.

Ogni tanto si girava a guardare verso l’interno, come in attesa di qualcuno, poi tornava a riassettarsi, con gesto grazioso, la candida camicia e i larghi calzoni di leggerissima seta impreziositi da un corsetto ricamato ed annodato sul seno; una cintura dorata e morbide babbucce, anche queste dorate, completavano il suo abbigliamento.

La figura era delicata come un fiore cresciuto in serra e gli straordinari occhi verdi erano pieni di splendore, nutriti di sogni e fantasie.  Dolci ed allungati verso le tempie, rivelavano innata curiosità e sensibilità; il candido jasmac di finissima mussola che le copriva il volto, li faceva risaltare come due puri smeraldi.

Quella ragazza era Jasmine, pupilla del Sultano.

Era da sola e reggeva un libro chiuso tra le mani. Voci e risate, però, le  sue ancelle che giocavano a palla, giungevano da vicino, oltre la grande siepe dietro cui s’era appartata per assaporare quell’attimo di solitudine.

La principessa di Doha amava la solitudine e correva a rifugiarsi in quell’angolo luminoso per rifuggire dagli odori e dai profumi dell’harem e per sfuggire al buio dei corridoi.  Da quei giardini, in posizione elevata, poteva guardare la città di sotto: i tetti, le strade, i palazzi. i giardini e quella nebbiolina  misteriosa e dorata che  saliva verso l’alto simile al suo trasparentissimo velo e rendeva morbidamente sfocati i colori dei boccioli ancora chiusi dei fiori  della grande siepe.

Jasmine era una ragazza sensibile e romantica e come tutte le persone romantiche, anche amabile, introversa e con il bisogno quasi istintivo di crearsi un posto appartato e silenzioso dove rifugiarsi per consumare la solitudine come una preziosa leccornia  Solo così l’’animo si apriva all’emozione, come le gemme alla rugiada, perché nulla come la solitudine suscitava nel più intimo riposto del suo animo, ansie e  costrizioni nascoste. E poteva vedersi correre, attraverso gli spazi infiniti creati dalla fantasia, in sella al suo amato cavallo ed offrire il volto e i capelli al vento. Libera e non segregata. Perché lei non era quel fiore di serra, fragile e delicato, ma un fiore  sbocciato in mezzo al deserto. Lei era come quelle meraviglie della natura, inimitabili, che prendevano vita dopo una di quelle brevi e violente piogge del deserto e che non avevano uguali in bellezza e profumo.

 

“Jasmine…”
Una voce di donna la distolse dalle fantasticherie evocate dal richiamo irresistibile proveniente dal mondo oltre quella siepe; lo splendido piumaggio della ruota aperta a ventaglio di un vanitoso maschio di pavone, alle sue spalle, cercava di attrarre l’attenzione di una femmina.

“Sono tornati?… Sono tornati dalla caccia?” domandò.

Una donna di mezza età si fece avanti  scuotendo  il capo; recava qualcosa sulle braccia.

“Guarda il tuo mantello da sposa. – sorrise – Guarda che meraviglia!”
Jasmine si voltò; il gesto fece tintinnare i preziosi orecchini di lapislazzolo che sparsero sulla fronte bruna una luce azzurrina e fecero risaltare il colore degli occhi.

Il mantello era assai bello: una trama di perle, pietre preziose e monete d’oro composte come in un mosaico. Era anche pieno di mistero, poiché ogni gemma conteneva un messaggio: nel diamante c’era la purezza, nel topazio la regalità, nel lapislazzolo c’era l’augurio di ricchezza e c’era, infine, la femminilità riposta nel corallo.

Voci e risate, immediatamente dopo, trasformarono il gazebo in un allegro salotto: le sue ancelle.

Jasmine si chimò a guardare il mantello, poi tornò a chiedere:

“Sono rientrati dalla battuta di caccia?”

C’era stato un tempo, pensava con una punta di amarezza, mentre allungava una mano verso quella meraviglia dell’estro femminile,  in cui anche lei partecipava a battute di caccia insieme l fratello Ibrahim ed a suo padre:  un pallido ricordo su cui il tempo aveva steso un velo pietoso.

Tese una mano verso il mantello, ma da una manica della tunica venne fuori un foglietto che toccò terra; la principessa si affrettò a raccoglierlo prima che lo facesse qualcuna delle ancelle.

“E’… è del principe Ben…” sorrise una di loro.

Jasmine non rispose e fece sparire in seno il foglietto, poi sospirò e si girò a guardare il crepuscolo sanguigno del tramonto. Gli ultimi sprazzi di luce, tenacemente attaccati alle colonne, strapparono bagliori ai suoi occhi dentro cui brillava quella fiamma che brucia i veli  dell’innocenza e accende i turbamenti segreti e misteriosi dei primi amori.

Senza una parola, la ragazza dette le spalle alla balaustra e si allontanò verso l'interno accompagnata da una brezza leggera ma frizzante. Si strinse nel mantello e lanciò un’ultima occhiata alla città pennellata di rosso dal crepuscolo sanguigno della sera ed ecco il bel volto del principe Ben emergere da tanto splendore.

Il principe Ben! Il loro  incontro. Primo, unico e sconvolgente. Il primo bacio. Appassionato e casto, che trascendendeva  gli istinti della carne. Un bacio unico. Capace di congiungere le loro anime prigioniere dei corpi, proprio attraverso il contatto delle loro labbra.

Nesuno l’aveva mai baciata così. Nessuno l’aveva baciata mai. E poi le sue parole: “Ti amo, Jasmine…”

                                             ****

Con le vele ammainate, nel pomeriggio che andava infocando, la lunga fila di imbarcazioni si dondolava pigra sulle acque del porto, verdi ed increspate dal monsone estivo.

Dall’alto delle torri della Cittadella lo scenario si presentava pittoresco e colorato, ma lo sguardo del principe Ben, che da lassù osservava ogni cosa, non si lasciò ingannare da quel delirio di colori: una dozzina di cannoni erano puntati sul mare e le loro bocche uscivano da solide impalcature merlate dietro cui le sentinelle andavano su e giù notte e giorno.

Una decina di bastimenti erano ormeggiati ad andana, fianco a fianco, con gli scafi disposti perpendicolarmente verso la banchina. Alcuni recavano la bandiera del sultano e la loro presenza doveva fruttare un buon ancoraggio, non poté esimersi dal pensare il giovane.

Le banchine brulicavano di viaggiatori, marinai, operai; navi in arrivo e navi in partenza ed un gran numero di uomini anche intorno alle bitte delle banchine per avvolgere gomene e catene e sollevare  corde e ancore. Più lontano alcuni bastimenti in disarmo stavano al riparo di uno squero.

Uno di essi attirò la sua attenzione; era nel raddobbo, il bacino per la riparazione delle navi. C’era una vela issata all’albero maestro e il giovane si lasciò sfuggire un’imprecazione:

“Per la Barba del Profeta!… Ma quella è la vela centrale dello Squalo.” esclamò, guardando in direzione del ribat, che disponeva di quattro cannoni e della difesa di un centinaio di soldati in perenne stato d’allarme. Osservò attentamente il porto e quella vela: la città non pareva interessarlo.

Qualcosa, però, d'un tratto attirò altrove la sua attenzione: verso i giardini.

“Jasmine!” mormorò e dimenticò ogni cosa: il porto, la vela e le sentinelle, con il solo desiderio a avvicinare colei che lo aveva condotto a Doha.

Si precipitò giù per le scale; il mantello sfiorò gli artigli delle tre fiere incatenate alle colonne del giardino.

“Allah sia ringraziato! – pensò a bassa voce – Jasmine è sola. Le ancelle giocano col principe Omar. – ancora pochi passi trafelati – Jasmine… “ proruppe, tutto d’un fiato.

 

La principessa Jasmine, seduta all’ombra di un pergolato, stava china su un libro; sentendosi chiamare sollevò il capo e  con l'orlo del  velo si coprì il  volto. Gli occhi le luccicarono, verdi come il più puro smeraldo, all'avvampare del sole del primo meriggio e richiamarono alla coscienza del giovane sentimenti di vellutato piacere. 

Si guardarono negli occhi, travolti e confusi dalle proprie emozioni, persi in un’estasi simile al respiro della primavera che si annunciava con la prima  gemma.

“Hai ricevuto il mio messaggio, angelo mio?” domandò egli, infine; la luce accecante del sole lo aveva investito alle spalle, proiettando la sua ombra a terra ad un passo da lei.

“Io vorrei… “ esordì lei, con un sorriso rapido come lo sguardo.  Anche Ben sorrise. Un sorriso che era una carezza, ma non poté sapere che cosa lei volesse dirgli, poiché una voce fendette l’aria come una frustata, impedendole di proseguire: era il sultano, affacciato ad un terrazzo.

“Ritirati, Jasmine.”

Senza una parola la principessa si alzò e si allontanò seguita dalle ragazze.

Ben si girò verso la balaustra, ma il sultano non c’era più; nel cielo terso, sopra le cime degli alberi, un gruppo di nuvole veleggiava veloce come uccelli in migrazione. Con la certezza d’aver offeso il suo ospite, il principe Ben  tornò a lenti passi nel suo appartamento.

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“Il mio signore dice che la festa sta per cominciare, principe Ben e desidera che lo raggiungiate.”

Un paggio venne a bussare alla porta.

Ben era di spalle, affacciato alla veranda del suo alloggio e guardava di sotto, in direzione dei giardini, con la speranza di  vedere Jasmine. In realtà, non ci sperava troppo e quel timore stimolava la sua contrarietà.  L’inatteso invito, però, rallentò un po’ la tensione nervosa.

Si voltò e fece un cenno d’assenso, poi si staccò dalla balaustra, infilò sotto il mantello color dattero l’affilatissima, inseparabile jatagan, la scimitarra bipunta e seguì il paggio, un fanciullo dalla pelle color cioccolato, secondo l’usanza delle corti arabe.

La sala dove il sultano lo ricevette, il maglis,  era un ambiente vivace e composito: arazzi e tappeti dei telai di Smirne, tappezzerie di Damasco, specchi di Venezia, maioliche di Napoli, tavolini inglesi e tendaggi persiani.

Il sultano e le persone che gli facevano da corte erano sprofondati tra i cuscini dei molti divani; c’era anche il maggiore Honey.

“Allah vi tenga in buona salute!” salutò il principe Ben facendo il suo ingresso ed avanzando a lunghi passi nell'ampio salone.

“Allah tenga in salute anche te, principe Ben.” rispose amabilmente Sayed e il giovane si chiese se avesse già dimenticato l’episodio del giardino. Si tolse il mantello e prese posto, come il sultano gli indicava, alla sua destra; alla sinistra sedeva Jezabel, la favorita.

Era una giovane donna dal volto velato, la cui bellezza pareva tutta concentrata negli occhi che lo jasmac faceva maliziosamente risaltare.

Lungi dal togliere bellezza ad un volto, quella finissima tela di mussola ne accresceva il fascino lasciando intravedere appena i contorni del volto, rendendoli, così, desiderabili come un frutto proibito.

La donna sollevò lo sguardo. Uno sguardo dolce e ammaliatore, totalmente remissivo, come quello di tutte le donne arabe dell'epoca, analfabete e completamente sottomesse all'uomo, poiché il  Corano recita: “Agli uomini è data la preminenza sulle donne.”

In realtà, una condizione  non troppo dissimile da quella della donna europea, la quale proprio in quel periodo metteva i germogli di una coscienza personale ad un prezzo assai alto.

L'addetto al servizio di palazzo,  un ometto piccolo e magro, sepolto sotto l’enorme keffiew che gli copriva il capo e scendeva fin quasi in vita,  introdusse un gruppo di danzatrici e l'attenzione di tutti si concentrò su di loro, soprattutto quella di Honey e degli altri ospiti europei, che non staccavano  lo sguardo dalle burrose rotondità ancheggianti delle belle ragazze. 

La  “danza del ventre” sulle note di rebab ed alud, caratteristici strumenti musicali, riscosse particolare successo; il principe Ben era l’unico ad apparire distratto. Quella danza, concepita come forma di rappresentazione sacra, col passare del tempo aveva totalmente perso la sua innocenza, diventando una profana danza di piacere. 

Mentre con la destra accarezzava l’impugnatura della jatagan appesa al fianco e con la sinistra tormentava i bottoni della tunica aperta sul petto, i nerissimi occhi del principe saettavano ogni volta che una porta si apriva e le labbra sorseggiavano adagio da una tazza, dando quasi l’impressione  di non accorgersi se si trattava di the oppure di carkadé: si trovava in quella  particolare predisposizione oscillante tra il timore e la speranza.

In verità, non aveva troppe speranze di rivedere Jasmine, anzi, si doleva di averle, forse,  causato qualche danno: sapeva bene che l’offesa ad una donna si lavava col sangue… molto spesso proprio quello della donna!

Si sbagliava. Proprio con le ultime note musicali, mentre le danzatrici andavano ad accoccolarsi ai piedi del Sultano come animaletti addomesticati in cerca di doni e carezze, la porta centrale si aprì  e la principessa Jasmine fece il suo ingresso.

Era bellissima. La veste verde ricamata in oro metteva in risalto la sua figura; le caviglie erano ornate da sottili maglie d’oro, le stesse che trattenevano i pantaloni di seta damascata. Anche braccia e collo erano coperti di gioielli e sullo jasmac trasparente, tale da mostrare perfino il tremore delle labbra, pendeva un diamante legato ad una catenella cui erano state infilate le più belle perle pescate nella costa: la pesca delle perle era una delle maggior risorse economiche del Paese.

La principessa salutò tutti con un inchino.

“Benvenuta tra noi.” dissero ad una voce il maggiore e i due ospiti europei; Ben taceva, ma parlavano per lui gli sguardi.

“Gioia dei miei occhi! – il sultano tese in avanti la mano grassoccia, letteralmente nascosta sotto pietre preziose - Vieni. Il tuo volto sarà per noi come il sole che illumina e scalda.  - la fece sedere su una pila di cuscini proprio di fronte a lui, cosicché anche il principe Ben le si trovò di fronte –  Vuoi allietarci con la tua musica?” la invitò con tono estremamente gentile e cordiale; un’ancella, intanto,  si avvicinava alla principessa con un tandir.

Il giovane fissò il suo ospite negli occhi: sapeva d'averlo offeso e non si lasciò ingannare dall’apparente giovialità: nebbia ed ombre li attraversavano, come nel fondo di uno stagno nella stagione invernale. 

Distolse da lui lo sguardo e lo fece convergere sul volto della principessa che stava raccogliendo lo strumento musicale dalle mani dell'ancella.

I loro sguardi si incontrarono e si fusero, dimentichi di ogni costrizione e fu come se due nuvole spinte da venti contrari si incontrassero nel cielo e facessero danzare l’aria.   La vicinanza di lei lo emozionava ed eccitava; gli dava l’impressione che la luce dell’enorme lampadario appeso al soffitto filtrasse attraverso i suoi occhi. Occhi di quel particolare colore che la natura distribuisce nelle oasi in primavera.  Leggeva nei suoi occhi un’emozione che lo riguardava e la consapevolezza gli contraeva la carne  di spasmi di piacere. La guardava estasiato.

Attraverso la finissima mussola dello jasmac,  vedeva le labbra di lei distese in un sorriso dolcissimo, lo stesso che le guizzava negli occhi verdi, fulmineo come un lampo, prima che lei abbassasse lo sguardo e le dita cominciassero a sfiorare le corde del tandir.

Jasmine suonava con maestria.

Ben ne era, come tutti, affascinato; seguiva il ritmo delle dita sulle corde ed inseguiva il suo sguardo vagante per l’ampio salone, smanioso di incontrare ancora i suoi occhi. Vi sorprese qualcosa di smarrito, quando gli sguardi tornarono ad incrociarsi e gli parve che  lei volesse dirgli qualcosa. Inviargli un messaggio.

Ne restò turbato. Posò la tazza  ancora piena a metà sul vassoio, ma a quel punto, alle dolci note della musica si frappose un secco rumore di cocci, subito seguito dal sibilo di una frusta e da un gemito di dolore.

Immediatamente dopo, Ben si frappose fra la frusta del Sultano ancora a mezz’aria e un paggetto che si teneva la guancia colpita con entrambe le mani; ai suoi piedi, sparpagliati per terra, c’erano i cocci della tazza  a lui destinata.

“Principe Ben…”

Sayed si aggiustò con gesto nervoso il mindil che gli nascondeva la calvizie avanzata.

“Perdonate, ma questo ragazzo non ha colpa. E’ stato urtato.” spiegò il principe.

“Non dubito che quello che diciate sia il vero, principe Ben. – un intenso rossore, indizio di profonda collera repressa comparve sulla faccia di Sayed – Se voglio punire uno schiavo, per Allah!…”

“Ma di che cosa vi immischiate, principe Ben?” interloquì il maggiore.

“Avete solo tardato la punizione, Ben. – tagliò corto il sultano; l’ira gli faceva sibilare le parole tra i denti – E tu, piccolo manigoldo, sparisci subito.”

 Il piccolo, però, non si mosse. Chino per terra,  fissava i cocci biascicando qualcosa di incomprensibile.

“Sparisci. – intimò la voce imperiosa e irritata del sultano – Sparisci, piccolo…”  agitando la frusta, ma il maggiore:

“Guardate! – esclamò, dirottando l’attenzione di tutti su quei frammenti di terracotta  –  Guardate…”

Qualcosa di prodigioso stava avvenendo sotto gli occhi di tutti: i cocci che si muovevano per terra.

"Ehi! Ma che cosa sta succedendo?" chiese qualcuno avvicinandosi .

"Questo sbadatello incapace sembra essere un mago..." fece eco qualcun altro alle sue spalle.

"Per la Barba del Profeta!... ma guardate che cosa sta..."

“Tacete! – tuonò infine il sultano sovrastando ogni  voce – Lasciate che il ragazzo si concentri.”

Nel silenzio che seguì si udiva solo il respiro affannoso del piccolo e il tintinnio dei cocci che si accostavano e si urtavano, si univano e si allontanavano, si scomponevano per poi riavvicinarsi; il volto del ragazzo era pallido e madido di sudore. I cocci finalmente si ricomposero, ma la forma era ancora  scomposta, come in un gioco ad incastro in cui non si riesce a trovare il giusto ordine.

Il rumore di una porta che sbatteva fece sussultare il piccolo; lo sguardo magnetico abbandonò i frammenti, che tornarono a sparpagliarsi per terra.

“Silenzio! - tornò a tuonare il sultano - Ho detto di tacere!" tornò ad intimare; il ventre flaccido si muoveva stizzoso al ritmo delle parole e la tunica fluttuava sulla disarmonica pinguedine.

Nessuno badò al nuovo arrivato, un soldato coperto di ferite e sporco di sangue e sabbia.

I cocci tornarono a cercarsi, tintinnando e trovarono finalmente il giusto incastro: la tazza fu ricomposta e il piccolo la raccolse e la porse al sultano, poi sedette per terra, sfinito.

“Per Allah! Questo piccolo manigoldo è veramente un mago!” sorrise Sayed Alì; evaporata ogni traccia di collera, che in lui doveva costituire l'emozione predominante, non nascondeva adesso soddisfazione e compiacimento

.Il ragazzo si alzò. Tossiva, a causa della bevanda fortemente aromatizzata che gli avevano dato da bere. Tutti gli si fecero intorno; tutti volevano sapere, poi, finalmente qualcuno si accorse del soldato, della sua veste a brandelli, delle armi inutilizzabili.


“Perché sei ferito?"  l'attenzione del sultano si spostò finalmente sull'uomo.

“Siamo stati assaliti… “ rispose quello, a fatica.

“Assaliti?” fece eco con voce alterata  Sayed.

“Ai margini … della pista dell’oasi... di Bir… la carovana… i predoni del deserto.” balbettava l’altro.

“E il carico? –  domandò il Sultano, stizzoso e livido in volto   – Cosa ne è stato del carico di mirra, perle e seta?…  - il soldato scuoteva sconsolatamente il capo; dalla tempia sinistra colava sangue - Vi siete lasciati portar via tutto il carico?… Questo stai dicendo? -  la faccia paonazza, lo sguardo maligno,  dal sembiante tutto trasparìva qualcosa di malvagio -  Ecco cosa intendevo parlando di quel maledetto predone… il rais dei Kinda... -  proruppe, dirottando lo sguardo sul principe Ben e puntando l'indice accusatore sul malcapitato soldato - Guardate, principe Ben… Guardate, maggiore Honey… Tutto ha portato via, quel maledetto demonio…Tutto!”

Gli occhi da animale braccato, il soldato saettava intorno lo sguardo spaventato che precipitò nel terrore appena si posò sulla figura del principe Ben.

“Lui!… - urlò levando un braccio e puntandolo nella sua direzione – Lui… lui è Rashid...  il Ra...Rais... il Rais dei Kinda... - balbettò - La sua faccia... non  potrò di...dimenticare la ... la sua faccia..."

“Principe Ben…”

Sayed si girò verso l’ospite, ma il falso Ben aveva già sfoderato la sua infallibile yatagan facendo il vuoto  intorno a sé.

“Questo soldato ha ragione, Ben Sayed.  - la voce beffarda del giovane lo inchiodò al suolo - Sì! Sono Rashid, il rais dei Kinda.”

Lo sguardo temporalesco, le straordinarie proporzioni fisiche, la temibile jatagan brandita in atto di minaccia,  l’aspetto del giovane parve d’un tratto terribile e selvaggio.

Un silenzio terrorizzato riempì la pausa che seguì; da lontano, nel silenzio ovattato da tappeti e tendaggi damascati, giungevano i ruggiti delle belve incatenate alle ringhiere..

“Rashid! – proruppe infine il Sultano – Sei proprio Rashid, il Rais dei Kinda?”

Gli rispose un urlo agghiacciante: il grido d’assalto del grande predone del deserto di Ar-Rimal che ogni soldato di scorta alle carovane, ogni componente di quelle carovane, conosceva benissimo e si augurava di non udire pe la seconda volta.

Con un balzo Rashid raggiunse la ringhiera di un ballatoio su cui si affacciavano molte vetrate e con un colpo della scimitarra mandò i vetri in frantumi.

“Ci rivedremo presto, Sayed Alì! Despota usurpatore!...  Abbiamo molti conti da sistemare, noi due!... Tornerò... Tornerò e ti porterò via la tua pupilla... la principessa Jasmine!"

“Prendetelo… prendete quel predone…” urlò il sultano, paonazzo di collera, nel silenzio glaciale calato sulla grande sala.

"Tornerò... - la voce del predone, possente quanto la sua figura, calò dall'alto della ringhiera minacciosa come la forza di un fulmine - Tornerò per te, Jasmine e ti porterò via... Aspettami, Jasmine, Luce dei miei Occhi... Aspettami..."

“Vengo con te.”  la voce di Akim, il piccolo mago, che di corsa lo aveva raggiunto in cima alla scalinata, colse alle spalle il grande predone.

“Aspetta!”  ripeté il piccolo, sollevando il pugno:

immediatamente dopo una cortina di fumo intenso calò tra loro e gli inseguitori permettendo la fuga.

La Fortuna aiuta gli audaci, si dice.

Al Rais dei Kinda, che dell’audacia doveva essere un campione, la capricciosa Dea bendata non poteva non prestare attenzione: una porta si aprì sotto il colonnato e qualcuno li invitò ad entrare.

“Chi sei? Perché vuoi aiutarci?” domandò sospettoso Rashid  all’uomo, quaranta anni, la faccia olivastra e una luce cupa nello sguardo.

“Chi è nemico del Sultano è mio amico!” rispose quegli e con la testa fece un cenno.  Qualcuno alle sue spalle gettò la sua ombra in avanti: una ragazza, che tirò fuori dalle pieghe del mantello un moncherino.

“Ho giurato di vendicare mia figlia. – proruppe l’uomo – Ho la custodia dei cavalli e vi farò lasciare il Palazzo e la città.”