Capitolo IV - seconda parte

Capitolo IV  - seconda parte
Giunse, infine, l’ultimo numero: “Lampo e Fuoco” lo aveva battezzato il giovanissimo mago che lo presentò, un ragazzo sui sedici anni: il nostro Ramseth.

Procurarsi gli ingredienti era stato piuttosto facile, al nostro eroe: allo zolfo e al carbone provvide l’amico Osorkon e il salnitro se lo procurò da sé, raschiando sulla parete di una stalla. Dopo di ciò, il ragazzo aveva preso delle canne secche, le aveva segate, ridotte in piccoli cilindri che aveva riempito di questo composto. Aveva turato con del papiro le due estremità e praticato un foro su una di esse, applicandovi un filo di paglia a mò di miccia; appiccando  fuoco a quel filo, la capsula sarebbe esplosa.
“Di che cosa si tratta?” chiese sospettoso il Gran Sacerdote.
“Di un dono che voglio fare al mio Faraone.” rispose prontamente il ragazzo.
“Un dono? – s’incupì l’uomo – Chi sei tu per voler fare un dono al nostro Signore? Nessuno mi ha parlato di questo dono?”
Ramseth non si lasciò intimidire né dal tono, né dalla minaccia contenuta nelle parole.
“Io sono un suddito del mio Signore. – rispose prontamente ed aggiunse – Gli appartengo come gli appartiene ogni altra cosa: acqua, terra, fiori e tutti i suoi sudditi… Se io gli appartengo – continuò astutamente – anche i miei occhi, la mia bocca, le mie braccia e il mio ingegno gli appartengono ed è proprio questo che voglio donare al mio Signore: il frutto del mio ingegno.”
“Quale assurdità si cela nelle tue parole, ragazzo?”
Il Gran Sacerdote si faceva sempre più sospettoso.
“Il mio ingegno ha studiato il cielo ed ha cattura un po’ della sua  energia e le mie mani… strumento del mio ingegno – spiegò con soave candore il ragazzo – l’hanno trasmessa in questi pezzi di canna per farne dono al mio Faraone.”
L’uomo degli Dei fece l’atto di replicare, ma il Faraone lo prevenne.
“L’energia del cielo, hai detto?” domandò, subito incuriosito.
“Il Lampo e il Tuono!” assentì il ragazzo accompagnando le parole con un gesto del capo.
“Mostrami il Lampo e il Tuono.  – disse  subito Thut-ank-Ammon, poi lo invitò – Vieni e mostrami la tua magia.”
Ramseth avanzò fino ai piedi del trono e chiese del fuoco; un servo gli portò una torcia alla cui fiamma il ragazzo  accostò un lungo stelo di paglia con cui accese la miccia.
La capsula esplose: prima un fischio, poi una luce vivissima e infine un bel botto.
Un coro di meraviglie si levò d’intorno: non s’era mai vista prima una cosa del genere!
“Grande magia! - esclamò il Faraone vivamente impressionato – Molto meglio di un proiettile di pece incandescente…”
“Non si tratta di magia, mio Signore, ma di un prodotto della Scienza.” disse il ragazzo, così come gli aveva spiegato la sua amica del futuro.
Thut tese una mano verso uno delle capsule; il Gran Sacerdote cercò di trattenerlo:
“No, mio Faraone… Non toccare questa magia…” disse; era anch’egli assai impressionato e soprattutto sospettoso: quello strano ragazzo gli ricordava qualcuno.
“Io non temo la forza del Cielo. – gli fece eco il Faraone – Io sono un Figlio del Cielo. – sottolineò, poi, rivolto al ragazzo – Dammi quel pacchetto, ragazzo… Come ti chiami?” domandò.
“Ramseth!… Ramseth è il mio nome e… se vuoi, mio Signore, posso spiegarti come liberare il tuono e il lampo che sono nascosti qui dentro.”
“Lo voglio! – rispose Thut, con la facilità e curiosità del ragazzo, prendendo in mano una delle tre capsule rimanenti, di cui nemmeno poteva supporre l’importanza. – Chi sei, Ramseth?” domandò, infine, dirottando lo sguardo sul ragazzo che abbassò immediatamente il suo, non osando ardire di guardare in volto il suo Sovrano.
Thut-ank-Ammon, che di suo padre, il faraone Akhenaton, sgraziato nel fisico ed irregolare nei tratti del volto, aveva preso ben poco era  d’aspetto assai avvenente. I tratti regolari e delicati doveva averli ereditati sicuramente dalle sembianze materne. Le labbra carnose, quelle sì, erano del padre, ma l’ovale arrotondato e volitivo e lo sguardo nero e profondo dovevano appartenere certamente a sua madre – Chi sei, Ramseth, se non sei un mago?” domandò.
“Sono uno studente. – spiegò con orgoglio il ragazzo -  Al temine di questa stagione compirò quattordici anni e al compimento del quindicesimo entrerò al Tempio di Ammon e studierò le Scienze degli Astri.”
“Il tuo volto non mi è nuovo…- interloquì il Gran Sacerdote – Ora che ti guardo attentamente, credo di averti già visto. – poi, con fare sempre più sospetto – Devi aver già avuto ottimi maestri.” aggiunse.
“Il prete Pahor è stato il mio maestro.”
“Pahor”… Ma certo! – assentì l’altro – Era sacerdote del Grande Tempio, un tempo e adesso è un prete per gente povera:”
“Io non sono povero. – replicò il ragazzo con orgoglio – Mia madre, Nsitamen, è molto generosa con il prete Pahor. Non ho mai vissuto nell’indigenza, nemmeno dopo la morte di mio padre, il generale Sesostri… Tutti hanno grande stima di mia madre.”
“Il generale Sesostri?” il Gran sacerdote aggrottò la fronte, visibilmente colpito da quel nome e senza aggiungere altro si allontanò; il Faraone ordinò:
“Voglio che tu venga a Palazzo con me. Voglio che tu costruisca altri giochi per me.”
E fu così che Ramseth divenne grande amico del suo Faraone e mentre con lui, nella lettiga reale raggiungeva la Casa d’Oro, pensava ad Emma, la sua amica del futuro.

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La sua amica, in verità, in quel momento si trovava in una situazione non proprio felice: era imbavagliata e legata mani e piedi ad una sedia.
Come aveva fatto, Emma, a cacciarsi in simile situazione?
Seguiamo i suoi passi  dal momento in cui, quella mattina aveva messo piede nella stazione di Porta Nuova, a Torino. Aveva raggiunto i binari e stava aspettando suo padre che sarebbe arrivato con il treno proveniente da Milano.
La stazione era piena di gente; soprattutto giovani, con maglietta, jeans e zaino in spalla, i volti abbronzati e i capelli scomposti. Erano davanti ali bar o sotto le pensiline dei treni; le tre edicole erano affollate e così anche i bar. Una voce metallica annunciava in continuazione treni in arrivo o in partenza. Era un’ora di punta. C’era anche una scolaresca chiassosa e turbolenta diretta verso l’ultimo binario, quello per Bardonecchia; coloratissimi giubbotti a vento e zaini in spalla.
Non era raro trovare studenti in gita, nelle stazioni; la primavera è il momento giusto per le gite ed era primavera.
L’annuncio del treno proveniente da Milano precedette l’arrivo del treno di pochi minuti. Ne discesero molte persone, ma Emma non vide suo padre. Stava già per allontanarsi, pensando ad un contrattempo negli impegni di suo padre, quando si sentì chiamare:
“Emma, che cosa aspetti? Tuo padre è già in macchina.”
Si voltò, ma non vide alcun volto conosciuto e pensò che stessero chiamando qualcuno con il suo stesso nome.
“Ehi, Emma – ripeté la voce – Stai ancora dormendo?”
Un uomo le toccò la spalla. Uno sconosciuto. Sui quaranta anni, in maglia e jeas: un uomo insignificante, stempiato e con qualche filo grigio tra i capelli; occhi chiari e baffetti ben curati.
“Dice a me, signore?” domandò la ragazza.
“Ed a chi? Sei Emma Curti? – la ragazza accennò di sì col capo – Ed allora?… su, che cosa aspetti?”
“Io non la conosco, signore. Mi sta scambiando con..”
L’altro non la lasciò finire:
“Stai scherzando? Mi prendi in giro?”
“No! Davvero non la conosco, signore.”
“Suvvia! Adesso basta scherzare. Tuo padre sarà stanco di aspettare in macchina…”
“Io non scherzo, signore” fu lei ad interrompere l’uomo, questa volta.
“Vuoi farmi credere di non avermi mai visto con tuo padre?… Io sono Mauro Socrato. Mi hai certamente visto in compagnia di tuo padre e del professor Dario Cardiff e…”
“Il professor Socrato?… Oh, mi spiace! Mi spiace di non averla riconosciuta, professore. Ma vede, io la conosco soltanto di nome.”
“Niente di tragico! – il professore la prese sottobraccio e la condusse fuori della stazione – Andiamo. Tuo padre sta aspettando.”
L’uomo era leggermente claudicante e la ragazza lo seguì fino in Via Sacchi, dietro la stazione,dove c’era una vettura in sosta: quella di suo padre. C’era un uomo in piedi, accanto alla portiera, che Emma non conosceva, ma non vide suo padre.
“Dov’è papà?” domandò.
“E’ andato a comprare le sigarette.” rispose l’uomo in piedi.
“Ma mio padre non fuma.” fece osservare la ragazza.
“Buon per lui! Non si brucerà i  polmoni! – fece il professore alle sue spalle, spingendola, con gesto brusco ed improvviso, all’interno della vettura; l’uomo in piedi si era messo alla guida –  Fila a tutta birra!” gli intimò quello.
“Ma… che significa? Che cosa…” tentò la ragazza, ma il professore la zittì:
“Dormi, bambina!” disse, immobilizzandola e facendole annusare qualcosa di cui era imbevuto il fazzoletto.

Emma si svegliò che era quasi mezzogiorno, imbavagliata e mani e piedi legati ad una sedia.