La "Sati"... il sacrificio della vedova

La  "Sati"... il sacrificio della vedova

Il sacrificio umano nel rituale funerario è stato praticato fin dagli albori della civiltà ed in tutte le società, ma poi si è persa nel tempo. Così anche l'usanza di sacrificare l'harem: Sumeri, Egizi, Achei, Fenici, Etruschi, Inca...
Dei Sumeri ne abbiamo la certezza a seguito della scoperta dei "Pozzi della Morte", ma  anche  in Perù sono state trovate tombe in cui si è celebrato il macabro rituale del sacrificio, come quella del principe del popolo dei Machica, antenati degli Incas, sepolto assieme a due spose.
Come non ricordare il sacrificio di Polissena, figlia di re Priamo, sulla pira di Achille o  delle donne di Ravana.
 Il rituale funebre che contempla il sacrificio di una sola ed unica sposa, però, è arrivato fin  quasi ai nostri giorni, conosciuto con il triste nome di "sati", praticato nella terra dei Maharajah, dove le tradizioni sono fortemente radicate e dove solo da pochi decenni il processo di modernizzazione tende a scalfirne la superficie.

L'India è uno dei Paesi in cui, pur essendo vietata, si pratica ancora la selezione dei sessi sui feti o anche sui neonati, a favore dei maschi: una pratica inaccettabile deme quella dalla "Sati". La donna, in quella parte del mondo, è, ancor oggi, considerata un peso per la famiglia e la vedova, un peso ancora maggiore.

In una società patriarcale che ha privilegiato l'uomo, assegnando alla donna il ruolo di subordinazione e quasi sempre la patente di peccatrice e pericolosità, era inevitabile   giungere a quegli estremi,  per fortuna appartenenti ad un passato e ad un passato prossimo.