Nel cantiere della Piramide

Nel cantiere della Piramide

 


La stagione Akhet o della Semina era giunta da più di due mesi, ma lo straripamento delle acque non accennava a diminuire e il Paese era diventato una sola grande valle allagata. Le campagne avevano spopolato e le masse di contadini avevano passato il Nilo per lavorare alla costruzione del complesso funerario del Faraone.

Coordinare l'impiego di tanta gente non era facile, pensava Djoser, osservando da lontano
le attività del cantiere. Per i funzionari governativi doveva essere faticoso e difficile quanto il lavoro stesso.

Le cose che bisognava fare affinché il lavoro procedesse spedito erano tante: evitare lunghe interruzioni, procurare l'arrivo dei blocchi al momento giusto, rinnovare in tempo utile gli arnesi rotti, predisporre il ricambio delle squadre di operai. In realtà, nella costruzione di quei giganteschi edifici, solo una piccola parte di operai specializzati veniva occupata a tempo pieno. La massa di contadini e soldati, una moltitudine di persone orgogliose di contribuire con il proprio lavoro all'Immortalità del Faraone, era impiegata solo durante la piena.

Djoser attraversò il campo. Brulicava di gente operosa e divisa in squadre. C'era la
"Squadra Valente", che misurava blocchi e smussava angoli. C'era quella del "Fiume Sacro", che accatastava legna e fabbricava utensili e c'era la squadra del "Toro Vincitore", che martellava e tagliava, adoprando larghe seghe di pietra e rame. Altre squadre trasportavano cibo, acqua, argilla; altre ancora spostavano blocchi o li trasportavano su rampe. C'erano quelle che fissavano corde o numeravano massi e c'erano molte altre ancora.

Djoser aveva tanti amici fra quella gente; gente in gamba, capace e fidata: architetti,
riproduttori d'immagini, tagliatori di pietre, creatori di gioielli. Insieme, costituivano una piccola comunità in seno alla società. Persone reciprocamente legate da principi di solidarietà e appartenenza; persone pronte ad aiutarsi, a sostenersi ed a sostenere gli speciali privilegi che il vivere all'ombra delle Piramidi concedeva loro. Djoser li conosceva quasi tutti. Conosceva i loro
nomi, le famiglie, le vicende ed era diventato uno di loro.

"Djoser, sei tornato?"

Qualcuno lo chiamò dall'alto di una delle rampe, agitando le braccia per attirare la sua
attenzione; Djoser si girò in quella direzione.

Le rampe, che dall'angolo inferiore salivano verso l'alto, avvolgevano a serpentina la Piramide in costruzione.

Il ragazzo sollevò il capo; era già così alta da oscurare il sole.

"Sono tornato." rispose; l'altro si affacciò dalla piattaforma della rampa.
Dietro di lui un gruppo di uomini spingeva un pesante masso. Larga quasi trenta cubiti, per permettere alle slitte che procedevano nei due sensi di non ostacolarsi, era una vera e propria strada. La pendenza, piuttosto dolce e controllata, di poco superiore ai quattro gradi, consentiva alle slitte di non scivolare indietro ed evitava un lavoro eccessivamente gravoso agli uomini addetti al traino. Sul lato esterno un muro di pietrisco e mattoni crudi faceva da parapetto.

Il ragazzo attraversò di corsa il primo tratto, il più affollato, ingombro di uomini, utensili e blocchi di pietra numerati.

 

Ognuno di quei lastroni recava scritte per facilitarne la collocazione.


"Sei stato via più di sessanta giorni. Ero in pensiero. - riprese l'uomo, continuando ad agitare le braccia - Temevo ti fosse successo qualcosa. Dove sei stato? - sui quaranta anni, alto, il fisico asciutto e il fare autoritario, era certamente un caposquadra - Qui tutti chiedono di te. Dov'é Djoser? Quando torna Djoser? Perché non torna Djoser... Dove sei stato in tutto questo
tempo?"


"Non lontano da qui." rispose evasivo il ragazzo percorrendo la seconda rampa. Man mano che saliva e che la costruzione svettava verso l'alto, diminuiva lo spazio e il numero degli uomini.


Djoser raggiunse la terza rampa e il caposquadra.


Visto da quell'altezza il cantiere sembrava un termitaio allo scoperto, vivace e movimentato. Da lassù si vedeva bene ogni cosa: il tempio a Valle quasi ultimato, le ultime assise di pietre della Strada Sacra, la Sfinge. Si vedeva bene anche l'intricato dedalo di viuzze che correvano serpeggiando intorno ai magazzini reali, ad occidente del canale. Più lontano, il Nilo si snodava
sinuoso ed impetuoso a causa della Piena che non accennava a calare.


"Salute a te, Siptha, che rivedo volentieri." volse le spalle al fiume e salutò con
le braccia all'altezza delle spalle.


"Ti rivedo
con piacere anch'io, mio giovane amico. Ma non hai risposto alla mia domanda. Dove sei stato? Qui sentono tutti la tua mancanza. Alcune cose non vanno bene, quaggiù!"


"Ci sono cambiamenti qui, vedo." Djoser si guardò intorno.


"Il funzionario Hatmut mi ha mandato questa squadra, ma è piuttosto fiacca - si
lamentò - e il lavoro procede a rilento."



"Vedo laggiù Amosis. - replicò il ragazzo - Lui è un lavoratore instancabile e molto
capace, ma non vedo suo fratello Thotmosis."


"Thotmosis oggi non c'è. - spiegò il caposquadra - Il suo asino è malato e lui ha preso
due giorni di permesso per curarlo."


"La sua mancanza si fa sentire!" osservò il ragazzo.


"Già! Nessuno è capace di poggiare un blocco accanto all'altro con la stessa precisione, in
modo da non permettere ad una sola pagliuzza di starci fra le fessure."


Anche Djoser conosceva ed apprezzava, come tutti, la competenza di Thotmosis, il quale non
avrebbe certo approvato il lavoro degli operai della nuova squadra.


"Guarda qui, Djoser. Guarda in che modo maldestro sono state posate queste pietre."


"Già! Non ce n'è una sola che combaci con l'altra." assentì il ragazzo, con accento di
disapprovazione.


"Per fortuna queste pietre costituiscono il massiccio centrale - spiegò il caposquadra; una
piccola pausa per tirare su col naso e detergersi il sudore con uno straccio, poi proseguì - Meglio che non lo siano, d'altronde. Lo strato successivo si legherà più saldamente se le pietre non sono uguali. Questa malta - indicò lo strato di gesso disposto sul piano di posa - e lo scheggiame di riempimento degli interstizi, assicureranno una perfetta stabilità al nucleo che sta dentro
e permetteranno una presa più salda dei blocchi di rivestimento esterno... Attento! Attento, tu!" gridò all'indirizzo dell'uomo che stava versando la malta ancora allo stato fluido sulla superficie delle ultime assise.


In effetti, pensava Djoser, a guardarlo così come si presentava in quel momento, più che
alla Piramide di Khufu, quella costruzione somigliava a quella di Zoser e cioè ad una grande scalinata che saliva verso il cielo.


"Attenti, voi due! - continuava a gridare il caposquadra - Questa sostanza di gesso e acqua
indurisce rapidamente. - poi, rivolto al ragazzo - Osserva, Djoser. Quando il fango si asciugherà, queste due pietre potranno respirare senza patire il caldo del giorno e il freddo della notte, ma occorre che i massi siano accostati con diligenza e senza svogliatezza e gl'interstizi riempiti con cura."



Djoser approvava il dissenso del caposquadra scuotendo anch'egli il capo. Il maestro Pthahotep gli aveva spiegato la necessità di una perfetta posa delle pietre, soprattutto nelle prime assise, le più vicine al nucleo di roccia centrale che fungeva da fondamenta.

"Chi è questa gente così svogliata e incompetente? - domandò - E soprattutto senza rispetto
alcuno per il nostro Sovrano!" aggiunse con accento di rimprovero.


"Sono stati Amir e la sua gente a posare queste pietre."


"Il Faraone è il Dio di Thotmosis - replicò in tono assai vivace Amir, chiamato in causa -
Ma non è il Dio di Amir."

Amir era un principe cananeo fatto prigioniero dal Faraone e costretto a lavorare per la sua gloria.

"Tieni la bocca abbottonata, Amir! - gl'ingiunse il caposquadra - O la potenza del
Faraone...

(continua)