L'AMBASCIATORE LONGOBARDO (2° PARTE)

L'AMBASCIATORE LONGOBARDO (2° PARTE)

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La corte era in fermento: un torneo in onore degli ospiti.
Tutto era pronto da giorni nello spiazzo che si stendeva davanti al castello. Il terreno era stato recintato da una palizzata ed a metà del perimetro erano  state sistemate alcune tende ornate di pennoni e frange colorate; davanti ad ognuna di loro c’era lo scudo del cavaliere che avrebbe partecipato al torneo.
Uno scudo bianco con bordo colorato di rosso e con al centro un’Aquila Reale, posava davanti alla seconda tenda: era lo scudo di Abelardo, Campione della principessa Teodolinda.
Sul lato opposto erano state sistemate le tribune per gli spettatori; un piccolo palco sopra un poggio era il posto d’onore e vi avevano preso posto il Duca, la principessa Teodolinda e i suoi ospiti longobardi.


Il torneo ebbe inizio.
Per primi entrarono in campo gli araldi i quali spiegarono le modalità della gara. Proclamarono i nomi dei quatto Campioni: Agililulfo, Gundebaldo, Teobaldo e Abelardo, Campione della principessa.
Ogni cavaliere presente poteva lanciare la sfida ai Campioni ed alla fine della giornata, quello tra i cavalieri che avesse spezzato quattro lance, sarebbe stato nominato Campione del Torneo ed avrebbe ricevuto in dono uno splendido cavallo.
I Cavalieri dovevano scegliere i colori della dama a cui volevano dedicare la vittoria, portando sul cimiero i nastri da lei ricevuti.
Ritiratisi gli araldi, entrarono i Cavalieri e la gara ebbe inizio.
I quattro Campioni, armati di tutto punto e chiusi nelle splendide armature, avanzarono nel campo. Giunti sotto il podio si fermarono per rendere omaggio al Duca ed alla principessa poi, al suono di tamburi, raggiunsero la loro postazione nella parte nord del campo. Gli sfidanti, invece, si allontanarono verso la parte sud.
Al segnale delle trombe, cessati i tamburi, i due gruppi mossero l’uno contro l’altro.
Nel primo scontro rimasero disarcionati tre cavalieri; i cinque superstiti, due sfidanti e tre campioni, tornarono alla loro postazione.
A sfidare il Campione che aveva vinto l’avversario si presentò un nuovo sfidante e il secondo attacco ebbe inizio.
La folla, cavalieri e dame seduti  sulle panche sistemate nelle tribune e il popolo assiepato lungo la palizzata, incitava i Campioni e gli Sfidanti con urla e lazzi.

I tornei erano gli svaghi preferiti dell’epoca sia da nobili  che dal popolo; i primi l’associavano alla caccia ed al banchetto, i secondi agli avanzi dei quello stesso banchetto.

Al secondo attacco il Campione della principessa fu disarcionato. Seguì un grido di disapprovazione unanime, ma ecco che, mentre i cavalieri tornavano al loro posto, un nuovo sfidante si fece avanti: era il bell’ambasciatore longobardo.
Il giovane si fermò davanti alla principessa.
“Sarò il tuo Campione. – disse chinandosi – Combatterò per te in nome di Re Autari.”
Teodolinda si voltò verso il Duca che ebbe un sorriso compiaciuto: se un capitano di Autari mostrava per sua figlia tale rispetto, certo il suo Re avrebbe fatto ancora di più.
Con un cenno del capo acconsentì e Teodolinda porse al suo nuovo Campione i nastri colorati: bianco e rosso rubino.
Il giovane si allontanò e raggiunse il suo cavallo che uno scudiero reggeva per le briglie al limitare del campo.
Pochi attimi dopo raggiunse la sua postazione e il terzo assalto ebbe inizio.
Non ci furono perdenti e il numero dei contendenti rimase a tre contro tre.
Nel quarto assalto il longobardo ebbe ragione dell’avversario e così nel quinto e nel sesto e anche  nel settimo.
Al nobile Guadaldo restava solo un ultimo scontro, ma non erano rimasti avversari: c’erano solo lui e l’altro Campione, il figlio del Duca.

Secondo le leggi della Cavalleria la postazione toccava al Campione del Signore di casa, ma la Cavalleria imponeva gesti di cortesia e così il Campione del Duca, che era nche suo figlio, gli cedette il posto e raggiunse la postazione degli sfidanti.
Il gesto fu salutato con uno scroscio di applausi.
Uno squillo di tromba, subito dopo, annunciò l’ultima gara e i due Campioni si lanciarono in avanti a spron battuto; l’urto delle lance, quando si scontrarono, rimbombò nella pianura con suono metallico e tonante.
Le due lance volarono in pezzi e i cavalieri ondeggiarono; parvero sul punto di cadere, ma ripresero l’equilibrio.
I cavalli s’impennarono, ma i Cavalieri ripresero ben presto anche il controllo su di loro.
Uno sguardo, un braccio levato e i due tornarono alle rispettive postazioni.
Nuove lance e nuovo assalto, ma questa volta il cavallo di Gundebaldo, il figlio del Duca, non resistette all’impatto. Si piegò sui garretti, poi cadde rovinosamente assieme al proprio cavaliere.
Il giovane longobardo saltò giù di sella, s’accostò al vinto e lo aiutò a rialzarsi e questi, toltosi l’elmo, gli fece un profondo inchino, dichiarandosi vinto.
Anche Guadaldo  si scoprì il capo poi si avvicinò al palco, baciato dai raggi tiepidi del sole morente e chinò il capo biondo davanti alla principessa.
Teodolinda si alzò, discese i cinque gradini e s’accostò al suo Campione.
Guadaldo staccò dal cimiero i nastri colorati per cui s’era battuto e con mani leggermente tremanti li tese alla principessa che rispose con un sorriso.
Guadaldo stava per rialzarsi, ma:
“Aspetta. – lo fermò Teodolinda, sfilandosi un anello dal dito e porgendoglielo con gesro grazioso– Prendi. E’ per ingraziarti.”
Il giovane converse gli occhi in quelli di lei e la guardò così come si guarda un prodigio, poi prese l’anello e prima di infilarselo al dito lo portò alle labbra.
“Grazie a te, principessa. Lo custodirò come la più preziosa delle reliquie.”


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Un cigolio di catene, uno scricchiolio di tavolaccio e il ponte levatoio del castello del conte Aldebrandi si abbassò per far passare un gruppo di cavalieri; gli zoccoli dei cavalli rimbombavano nella valle sottostante.

Erano armati di tutto punto, ma a capo scoperto, segno che non era una spedizione militare. Al contrario, c’era un corteo nuziale e quei cavalieri erano di corta: la principessa Teodolinda di Baviera era in viaggio verso la corte longobarda e quella era stata una delle tappe del lungo viaggio.

Viaggiare, a quei tempi era davvero un’impresa faticosa e disagevole.
La carrozza non era stata ancora inventata; si dovrà aspettare il 1.300 e le nozze di Galeazzo Visconte per vederne comparire la prima a Milano.
La principessa era un po’ provata dal lungo viaggio, ma quella sosta aveva giovato molto anche al suo umore, permettendole perfino di tornare in sella al suo cavallo preferito. Ottima amazzone, Teodolinda aveva rifiuto la comodità di una portantina.

Furono in vita delle mura di Pavia dopo qualche ora, ma la vista di quei bastioni la rese assorta e pensierosa.
Guadebaldo, l’amatissimo fratello, che cavalcava al suo fianco, le faceva da accompagnatore. Faceva le veci del Duca suo padre, rimasto a custodire il Regno, come la prudenza suggeriva nel groviglio della situazione politica creatasi con la caduta dell’Impero Romano.
“Sorridi, sorellina. – la incoraggiò, avvedendosi di quel cambiamento d’umore – Presto sarai Regina.”
“Credi che il popolo dei Longobardi accetterà una Regina cattolica?” domandò lei.
“Oh, cara Teodolinda. – le sorrise il fratello – I miei occhi di soldato e di principe vedono le molte differenze che esistono tra i popoli conquistati e i popoli conquistatori…  La situazione politica di entrambi, però, suggerisce di annullare qualcuna di queste differenze.”
“Io sono una donna e non mi sono occupata mai di politica.” replicò la principessa.
“Non ancora. – rispose il fratello – Ma presto sarai Regina e dovrai occupatene…. – una breve pausa per un affettuoso sorriso, poi –Dio ti aiuterà a sostenere il difficile ruolo di Regina di un popolo non cattolico.” continuò.
“Non cattolico…. – ripeté la principessa – Già!… Non ancora!” aggiunse.

Le porte di Pavia erano  sempre più vicine.
La verde e generosa pianura era interrotta a tratti da brulle colline, ma i pendii erano dolci e sinuosi; d’ un tratto qualcosa attraversò l’aria… come di un suono lontano.
“Ma… non senti anche tu, Gundebaldo? Non senti…”
“Sì, Teodolinda. – la interruppe il fratello – Suono di campane! Campane a festa accolgono la nuova Regina. I tuoi nuovi sudditi ti fanno festa.”

Le mura della città erano ormai vicinissime ed un gruppo di donne e bambini venne fuori di un casolare.
“Dio salvi la Regina.” cominciarono a gridare mentre altre persone sbucavano da ogni parte; ad ogni metro che il suo cavallo guadagnava, altra gente sbucava da ogni dove. Quando le mura della città furono raggiunte, a seguirla c’era una folla.
Sotto le mura il corteo si fermò ed un giovane riccamente vestito si staccò dalla porta principale e le venne incontro. Reggeva l’elmo dall’alto cimiero sotto il braccio in segno di grande deferenza .
“Salute a te, nobile Teodolinda. Sono il principe Ausul e ti do il benvenuto a nome di re Autari, mio fratello. Se vuoi degnarti di seguirmi, ti condurrò fino a Palazzo .” salutò con un profondo inchino, poi con un gesto di perfetta galanteria, prese le briglie del cavallo della principessa e lo guidò verso il castello.
Dall’alto della sella, Teodolinda guardava la bella testa bionda e ricciuta del giovanissimo fratello del suo ormai prossimo sposo, il fisico atletico, le mani guatate ed avvezze alle armi e pensava:
“Questo giovane è fiero e bello… il suo sguardo è leale. Come sarà suo fratello?”

Una domanda che continuò a porsi tutto il giorno ed anche a tavola, la sera, al sontuoso banchetto offerto in onore suo e del suo seguito.
Autari non c’era. L’etichetta gli imponeva di non vedere la sposa prima del momento delle nozze, ma neppure il nobile Guadaldo era presente. Invano i suoi occhi lo cercarono per tutta la sala del convito, infine pensò che fosse rimasto a tener compagnia al suo Re in quella serata per lui solitaria.
A tavola le era stato assegnato il posto d’onore, quello che di solito occupava re Autari.
La tavola era lunghissima ed apparecchiata con coppe, piatti e posate d’oro, coltelli e cucchiai; la forchetta non era ancora d’uso.
La principessa se ne stupì piacevolmente: non si aspettava di trovare tale raffinatezza in una corte barbara.
Il banchetto si protrasse fino a tardi e proseguì ancora dopo che la principessa e le sue dame si furono allontanate;  sarebbe terminato solo con la sbornia generale di tutti i commensali, da smaltire nella mattinata del giorno dopo.

Lasciata la sala del banchetto, Teodolinda raggiunse il suo appartamento. L’accompagnava il principe Ausul, che aveva fatto gli onori di casa insieme alle ancelle che l’aspettavano nel corridoio.
Davanti all’uscio della sua camera privata, il principe si fermò, ma prima di accomiatarsi le consegnò un pacchetto.
“Da parte di re Autari, tuo promesso sposo.” disse.
La principessa prese il pacchetto e spinse l’uscio; all’interno c’era ad attenderla la nutrice.
“Piccola mia. –l a donna le si avvicinò, chiamandola, con quella sua vocina così esile ed in contrasto con l’abbondante mole del fisico – Re Autari non è solo un valoroso guerriero, ma anche un uomo assai premuroso… Apri quel pacchetto… su… su…Non vedi che spasimo di curiosità…”
Nel pacchetto c’erano una minuscola chiave d’oro ed un ventaglio.
“C’è qualcosa scritto su questo ventaglio.” osservò la principessa.
“Che cosa aspetti? – la sollecitò la nutrice –Leggi cosa ti manda a dire il tuo sposo.”
Teodolinda lesse.
“Questa è la chiave del mio cuore, mia dolce Teodolinda e solamente tu potrai aprirla perché ne sei la Regina.”
“Che squisito cavaliere è il tuo sposo,mio piccola cerbiatta. – la voce della nutrice era tenera e commossa – Adesso so che sarai felice in questa terra.”
“Ma lui non mi ha mai vista.” replicò la principessa.
“Ti hanno vista i suoi ambasciatori… Ti ha visto il giovane Guadaldo, che avrà intessuto le sue lodi, piccola mia.”
Teodilnda sorrise poi andò a dormire, pensando al suo Campione che, come diceva la nutrice, doveva aver intessuto le sue lodi.

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La notte era terminata.
L’Aurora mandava giù da cielo un chiarore iridescente e il cielo era di una limpidezza da ferire lo sguardo. Ci si abituava presto, però, ed era bello guardarlo.
La vita a palazzo iniziava presto, ma quel giorno, il giorno delle nozze del Re, iniziò ancor prima. Per alcuni, in verità il riposo non c’era neppure stato.
Anche la sposa, però, si alzò molto presto. Aiutata dalle ancelle si preparò per il grande evento.
Un leggerissimo tocco di rosa sulle guance e un profumo sulla  persona e sui capelli… per essi, in verità, molta più cura.
Spazzolati a lungo,, i bei capelli della principessa furono lasciati sciolti sulle spalle e divisi sulla fronte  e portati dietro le orecchie.
Fu portato l’abito da sposa e lei lo indossò.
Era di finissima seta bianca stretto in vita e trattenuto da una cintura d’oro; ampio e con ricami in oro sulle maniche e sull’orlo.
Non indossò gioielli, all’infuori di un paio di orecchini con due splendidi diamanti ed in testa un meraviglioso diadema tempestato di preziosi, che facevano parte del suo corredo di sposa.
L’uso longobardo, in verità, era che a fare il “dono del mattino” fosse lo sposo e non la sposa con la sua dote: un omaggio alla donna.

 

Il corteo lasciò il Palazzo e si diresse verso la Cattedrale.
Le campane suonavano a festa e tutta la città era per strada; tappeti di fiori per terra e fiori che scendevano giù da finestre e balconi sulla portantina della sposa tirata da quattro cavalli bianchi montati da palafrenieri del Re.
Le campane della Cattedrale la accolsero suonando; profumo di fiori ed incenso.
Teodolinda varcò la soglia al braccio del fratello.
Era un po’ pallida.
Entrò nella navata.
Il suono delle campane restò fuori e l’accolse invece un coro celestiale di bambini.
A passo lieve si diresse verso l’altare tra due ali di volti sorridenti.
Sull’altare, di spalle, colui che stava per diventare il suo sposo l’aspettava insieme al prete che doveva celebrare; il cuore le tremava mentre, sempre avanzando, continuava a fissare le sue spalle, la figura salda ed atletica.
Avanzò ancora; solo due o tre metri la separavano da lui ed egli finalmente si voltò.
Teodolinda si arrestò; suo fratello si girà a guardarla.
La principessa fissava come incantata il suo promesso: re Autari, il suo Campione, il generoso cavaliere che si era battuto pe lei, il bell’ambasciatoe longobardo dallo sguardo audace.
Il cuore le batteva così forte nel petto che temette potesse egli sentirne i battiti; l’emozione la fece impallidire, arrossire e impallidire ancora.
Lo sguardo seguiva trepidante la figura di lui che si staccava dall’altare e veniva verso di lei, sorridente ed innamorato: Sentì le sue mani, forti e protettive, prendere le sue ed un brivido intenso le attraversò la schiena.
Le campane suonarono ancora, ma solo dentro di lei.
“Tu!” disse semplicemente.