A nessun’altra Divinità l’antico popolo egizio fu tanto grato quanto a questo Dio sempre ornato di fiori di loto e steli di papiro, rappresentanti l’Alto e il Basso Egitto, donde il nome: Paese delle due Terre.
Hapy fu per il popolo egizio un Dio Vivente a cui non era necessario elevare Templi, essendo il Nilo stesso il suo Tempio.
Le Feste in suo onore avevano inizio con l’arrivo delle rondini e della Piena, il quindici del mese di epiphi (giugno). Sothis, la rilucente stella di Iside, aveva dato inizio alla stagione di Akhet o dell’Inondazione, già da due mesi; le altre stagioni, la Peret o Germinazione e la Shenu o Secca, segnavano il momento del riposo della terra e quello del raccolto.
La Festa della Goccia voleva ricordare il mito di Iside che piangeva Osiride: nello straripamento delle acque, il popolo nilotico vedeva le lacrime della Dea.
La valle sommersa pareva un mare verde e la gente, un popolo marittimo e naufrago in un torrente, come scriverà più tardi un faraone della XXIII Dinastia. Quello della Piena era uno spettacolo che toccava l’animo e riempiva di stupore lo sguardo e l’immaginazione. L’acqua rompeva gli argini ed assaliva la Valle con rapidità crescente e formava paludi ed isolotti. Non c’era al mondo spettacolo più gradevole di quel fiume in cui uomini, donne, bambini ed animali, si tuffavano con gioiosa armonia.
Il Palazzo del Faraone, avvolto di nubi iridescenti, si levava possente, sopra tetti e cime di alberi e gareggiava con le guglie dei Templi;.Le punte dorate degli obelischi e le sommità dei Piloni, occupavano l’orizzonte.
I due ragazzi dettero loro le spalle senza rimpianti, correndo lungo gli stretti vicoli che scendevano al molo, dove si aprivano frequentatissime bettole e botteghe e dove si ammassavano le case dei pescatori. Raggiunsero il greto del fiume sulla scia di una banda di marinai ubriachi che cantavano a squarciagola.
Era una giornata fatta per l’avventura!
Il vento frusciava fra le canne del Nilo e Nefer era felice; l’odore del limo e quello delle canne la inebriavano stridori di anatre ed in mezzo ad un mare di alti sicomori, ricurvi papiri e palme svettanti. Voci, suoni e rumori si staccavano dagli argini e l’aria ne era piena.
I loro sguardi rapaci, ebbri di della libertà appena conquistata, sfioravano ogni cosa e l’eco dei passi eccitati e gioiosi, si infrangeva contro il rumore delle acque gonfie.
“Fermati, Thutmosis. – il sole rubava bagliori alle acque e li gettava sulle loro facce ansanti – Guarda questi piccoli frutti rossi e polposi.”
“Sono bacche.”
“Sono molti buoni. Assaggiane anche tu.”
Nefer tese i frutti; un gruppo di operai intorno ad una barca in riparazione, con aghi d’osso e filo di canapa, cuciva vele e rattoppava reti arrotolate per terra.
“Non mi piacciono.”
Thutmosis rifiutò i frutti; Nefer ne colse ancora e ne mangiò avidamente.
“Guarda quel vitellino, Nefer.”
“Ohhhh!...”
Nefer si girò; gli occhi le ridevano.
C’era una barchetta di papiro in mezzo al fiume e traghettava un recalcitrante vitello che si trascinava dietro, al guado, una riluttante mandria di bovini. I due fratelli seguirono la scenetta ancora per qualche attimo, poi lasciarono l’assolato greto arruffato di papiri e tornarono sulla Grande strada, la Strada degli Arieti, lastricata ed elevata sul livello delle acque, che conduceva a Karnak da Luxor, i due Santuari fatti costruire dal faraone Amenopeth III.
Prima di lasciare il chiassoso e caotico quartiere, attraversato da carri stracarichi di merci destinate ai santuari e frequentato da Sacerdoti e fedeli venuti da ogni parte del Paese, i due si fermarono ad osservare le acrobazie di funamboli e prestigiatori.
“Se fossi libero ed indipendente, - esordì il ragazzo - viaggerei da una città all’altra per apprendere cose ignote. Andrei nella terra dei Mitanni per gustare la loro raffinatezza, poi a Babilonia per interrogare maghi e sapienti. – Nefer ascoltava interessata e il fratello, lusingato, continuò – Andrei anche ad Hattusa per informarmi sull’ultimo tipo di lancia e sui cocchi da guerra dalle ruote uncinate… Visiterei Creta per scoprire come è fatto un Labirinto e poterlo utilizzare per la mia tomba.”
“Potremmo andare… perché io verrei con te, vero, Thut? – un sorriso d’assenso e la principessa continuò – Potremmo andare nella terra dove i fiumi scorrono all’incontrario, la terra di Ur.”
“Certo. E poi a Troia. Ora, però, andiamo al quartiere di Isherm.. Voglio mostrarti una Casa del Piacere. Hai mai visto una Casa del Piacere? – Nefer scosse il capo – I soldati ci vanno quando è giorno di paga.”
“Tu come lo sai? Ci sei stato anche tu?”
“Per le Sacre Dita di Horo! – il ragazzo assunse un’espressione di compiaciuto orgoglio – Io ci sono stato. Sono stato alla Casa del Loto Blu… ma che cos’hai? Sembri un cencio sbiancato.”
“Mi sento come se una mandria stesse passando sopra la mia pancia.” si lamentò Nefer.
“Colpa di quelle bacche. Ti avevo detto di non mangiarne.”
“Oh, che male! Che male! Mi sento divorare dalle fiamme.”
“Torniamo a Palazzo.”
Il fratello la prese per mano e si fece strada tra la folla.
“Ohhh!... – continuava a piagnucolare la ragazza – Non dovevo uscire… questo è giorno infausto. Oh, Dei dell’Orizzonte, prendetemi per mano e conducetemi lontano dal luogo dove non si può mangiare, vi prego.”
“Non piangere. – cercava di rincuorarla il fratello – Il saggio Imhopet sanerà la tua pancia.”
Imhopet, il medico di corte, era un cherwebb, sacerdote di massimo grado, temuto e riverito. Conosceva a memoria tutti i Testi Sacri e il Faraone ne aveva un gran rispetto. Grasso, maestoso, il cranio calvo e lucido d’olio, le sue parole, appena giunto negli appartamenti della principessa furono:
“Ti renderò la salute, o Figlia del cielo, se Ptha mi permetterà di farlo.” Disse e distese le labbra nel più radioso dei sorrisi.
Aveva tutti i denti incapsulati d’oro e la bocca luccicava quando l’apriva, cosa che faceva di continuo.
“Ma senza stregoneria alcuna.” aggiunse dopo un po’, alludendo a quelle persone che giravano per le strade assicurando di curare le malattie in virtù di incantesimi. Come rimedio al male della principessa Nefer, egli preparò un sacchetto di sabbia e sassolini da porre sopra la pancia ed una bevanda calda ed amara, infine disegnò sul palmo della mano della principessa una testa di ibis, caro al dio Thot, e le ordinò di leccarla fino a che “traccia non ne fosse rimasta”. La figura era disegnata con un liquido contenuto in una misteriosa ampolla e Nefer vi passò sopra la lingua con gran diligenza; subito dopo, l’eco di rumori prolungati e lontani, la spinse lentamente verso uno stato di profondo sopore.