Cap. XI - Il Consiglio dei 10

Era il primo giorno del mese, i membri del Consiglio dei Dieci erano riuniti nel tribunale della Quarantia Civile Antica e le delazioni raccolte nelle Bocche, speciali urne in cui i cittadini potevano depositare denunce e lamentele, erano ammucchiate su un enorme tavolo.
Le lettere erano state aperte tutte, ma l'accusa contro i due clandestini giunti a Venezia con la carovana degli zingari, era troppo grave perché i Dieci potessero tranquillamente continuare la seduta.
Quando sei uomini armati irruppero a Palazzo Mavera, prima ancora che la seduta fosse sciolta,
Raniero era appena rientrato ed aveva lasciato la sua salvatrice. Sorpreso, non riuscì ad opporre resistenza; Spaccamontagne, invece, era riuscito  a fuggire.

Il ragazzo fu immediatamente condotto alla presenza del Consiglio per essere interrogato.
La giustizia dei Dieci era severa, il giudizio inappellabile e la condanna immediata.
Lo spirito di giustizia, in verità, era uguale per tutti e non risparmiava nessuno, nobili o plebei; gli stessi componenti del Consiglio erano costantemente sottoposti a severissimi controlli.
Secondo le usanze vigenti, detenzione preventiva, confronti e  tortura, precedevano ed accompagnavano sempre gli interrogatori, che si svolgevano in una sala immersa nel buio, dove Raniero, accompagnato da un gruppo di  fanti, fu condotto e fatto sedere su uno sgabello.
Non si vedeva nulla; il filo di luce che penetrava da uno spioncino lasciava appena indovinare la presenza di qualcuno; erano in tre, un Consigliere del Doge e due Inquisitori: raramente, infatti, gli imputati comparivano davanti al Consiglio al completo.
 

                                            

Raniero si guardò intorno e man mano che gli occhi cominciavano ad abituarsi al buio, il ragazzo poté distinguere in mezzo alle ombre le macchie brillanti  dei fantasiosi costumi dei tre uomini: toghe rosse ornate di bianco e copricapi cilindrici.
Mettendo bene a fuoco la vista, il ragazzo si accorse che oltre a quelli vi erano altri due personaggi, ma non ne comprese subito il ruolo.
"Siete accusato di cospirare contro la Repubblica di Venezia, forestiero…” cominciò quello che pareva  essere il capo.
“Io…” tentò di replicare Raniero, ma quello lo interruppe con un brusco gesto del braccio e proseguì, sul filo interrotto della frase:
“… e il nostro ufficio è quello di dichiararvi colpevole o innocente… ma non si può proseguire nell'interrogatorio senza sapere come vi chiamate e che età avete." aggiunse.
"Mi chiamo Raniero. E non ho altro nome da aggiungere a questo."
I due strani personaggi cominciarono a scrivere e Raniero comprese che erano segretari del Comune, incaricati di trascrivere le domande e le risposte dell'interrogatorio, sulla base del quale veniva poi formulata la condanna o l'assoluzione.
"Non possiamo credere che non abbiate altro nome, uno qualsiasi per distinguervi da altri."
"No, eccellentissimi signori, ma, se volete, potete chiamarmi il Diseredato, che nulla conviene di più al mio stato."
I tre tornarono a confabulare poi ripresero.
"Quanti anni avete?"
"Diciotto, signori. Appena compiuti."
"Siete accusato di ordire ai danni di questa Repubblica insieme ad un vostro compagno di nome Giovanni."
Raniero non batté ciglio.
"Dove si trova ora il vostro compagno?"
"Sono innocente." proclamò il ragazzo.
"Non vi abbiamo ancora chiesto di farci questa dichiarazione, ma diteci dove si nasconde il vostro compagno?"
"Ha lasciato Venezia."
"Diretto a Milano?"
"No, eccellenza. Diretto a Roma."
"Una partenza improvvisa. -replicò quello- Sembra una fuga."  
"No, eccellenza, a Venezia dovevamo incontrare mercanti provenienti da Roma, ma che hanno mancato l'appuntamento. Per questo, il mio compagno è andato loro incontro."
"Chi sono questi mercanti?"
"Trattano spezie e..."
"Siete spie del Duca di Milano?" lo interruppe per la seconda volta l'Inquisitore. A bruciapelo.
"Non conosco il Duca di Milano." fu la pronta risposta del ragazzo.
"Siete una spia genovese, allora?"
"Non sono mai stato a Genova. E non sono una spia."
" Siete stato visto nel ghetto ebreo questa notte dall'addetto all'illuminazione di notte. Chi dovevate incontrare?"
"Non dovevo incontrare nessuno."
"Cosa ci facevate, allora, laggiù?"
"Ma niente. Niente...Camminavo..."
Seguì una pausa e immediatamente dopo venne introdotto un giovane che, di spalle, Raniero non riconobbe subito.
"Conoscete l'accusato?" fu chiesto al nuovo arrivato, che si girò e puntò l'indice sul ragazzo.
"Sì. Eccellentissimi signori. E' il giovane che ho seguito per tutta Venezia."
"Avete sentito?"
l'Inquisitore si girò verso Raniero e converse su di lui uno sguardo severo che parve fendere la penombra come una lama d’acciaio: occhi chiari, di un celeste vacuo e sbiadito. Spettrale.
"Ho sentito, eccellenza."
"E dite di non conoscerlo? Di non averlo mai visto?"
"Ma io non ho detto di non conoscerlo. - replicò Raniero - Ho conosciuto messer Faliero ieri sera in casa dell'eccellentissimo messer Mavera."
"Basta così!"
L'Inquisitore si rabbuiò in viso, pareva contrariato del coinvolgimento nell'interrogatorio del nome di uno dei Dieci.
"Perché vi siete unito agli zingari… tu e il tuo compagno di viaggio?" incalzò subito.
"Avevamo molto oro con noi e temevamo d'essere derubati.  Gli zingari erano diretti a Venezia e noi pure.  Per questo ci siamo uniti a loro."
"Perché avete indossato abiti gitani?"
"Qualcuno ha fatto sparire le nostre vesti dal carrozzone degli zingari insieme ai nostri documenti ed alle carte di credito delle nostre banche."
"Mentite. Ma abbiamo i mezzi per farvi confessare." replicò l'altro con accento spazientito, facendo 


Si concluse così il primo interrogatorio e subito dopo il ragazzo fu condotto nei sotterranei.
Dopo un tortuoso percorso di scale dai gradini corrosi dall’umidità, corridoi e porte sprangate si fermarono davanti ad una porta annerita dal fumo.
Appena spalancato l’uscio, una zaffata di aria calda li investì.
L’ambiente, buio e soffocante, era rischiarato unicamente da un enorme tripode in cui ardeva un fuoco: bastò uno sguardo a Raniero per capire di trovarsi nella stanza della tortura.
Il sinistro arredo era proprio quello caratteristico delle camere dei tormenti: cavalletti, flagelli, verghe, corde ed ogni altro congegno che mente umana avesse escogitato per procurare maggior sofferenza possibile.
Tre uomini incappucciati erano in attesa, gambe divaricate e braccia conserte.

Il Consigliere Inquisitore, alle spalle del ragazzo, avanzò di qualche passo.
Ad un suo cenno, uno dei tre, forse il boia, ordinò agli altri due di sistemare il prigioniero su un cavalletto ed afferrò una verga di cuoio alle cui estremità erano attaccate una dozzina di palline di ferro. Il suo braccio si levò e le palline tintinnarono minacciose: dietro il cappuccio, due pupille chiare e fredde, nella cavità delle orbite,  brillarono di una gioia feroce: testimoni di una maniacale
propensione per la violenza e la crudeltà.
Una scena assai simile tornò alla mente del ragazzo che serrò le labbra ed attese il colpo sulla schiena denudata.
Questo arrivò. Rovinoso. Devastante.  Conosceva il sapore della frusta, ma questo era qualcosa di indicibile ed umanamente insopportabile. Lanciò un urlo.
Prima che la verga si abbattesse per la seconda volta, la voce dell'Inquisitore fermò la mano del boia; le palline tintinnarono sinistre, lasciando nell’aria un’eco metallica..
"Non amiamo la violenza - disse l’uomo con voce fredda e impassibile - Parlate. Siete ancora in tempo. Se non lo fate spontaneamente lo farete per forza. Ditemi dove si nasconde il vostro compagno."
Il giovane non rispose e la verga tornò a colpire.
                             
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 L'alba mise in fuga le ombre della notte, ma nel Palazzo Ducale il Consiglio si riuniva per la terza volta, in una di quelle sedute straordinarie che avvenivano di rado e per casi particolari.
La sala era talmente bella e sontuosa da non sembrare un tribunale, ornata da tendaggi e dipinti e confortata da comodi sedili. Il banco dei giudici ed i seggi dei consiglieri erano artisticamente scolpiti e coperti con drappi rossi e cuscini di velluto.
Il Doge, seduto su un piccolo trono, indossava una veste di velluto rosso e portava in testa un berretto gemmato, insegna della sua alta potestà.
Alla sua sinistra, sedevano tre Consiglieri, in veste rossa e stola nera. I Dieci, i terribili Dieci, sedevano più in basso; nei seggi centrali avevano preso posto i tre Inquisitori, eletti ogni anno; tra essi c'era Alvise Mavera. I rimanenti sette Consiglieri erano così disposti: tre alla destra di Mavera e quattro alla sinistra. Subito dopo sedeva l'Avogador del comune, in toga nera come gli Inquisitori.
L'Inquisitore capo, al centro dei tre, prese la parola per pronunciare la frase di rito:
"Onorevoli colleghi devo annunciarvi che si trama contro la Repubblica."
Nessun commento e l'Inquisitore continuò:
"Si faccia avanti colui che ha denunciato il pericolo che incombe sulla Serenissima Repubblica di Venezia."
I fanti introdussero il proprietario della locanda del Gambero Rosso; l'uomo avanzò nella stanza, ma si arrestò intimidito da quell'apparato e fiaccato nello spirito e nel corpo.
"Venite avanti. Non abbiate timori." lo incoraggiarono.
Bortolo fece qualche passo e si fermò di fronte al seggio del Grande Inquisitore.
"Come vi chiamate?"
"Gualberto Monco, ma tutti mi chiamano Bortolo. Sono il padrone del..."
"Non ci interessa sapere se siete o no padrone di qualcosa. Rispondete solamente alle domande che vi vengono rivolte."
"Sì, eccellentissimo signore." rispose Bortolo timidamente.
"Avete denunciato voi la presenza a Venezia di spie che cospirerebbero contro la Repubblica?
"Si, eccellenza."
"Come sapevate che fra i gitani c'erano nascoste delle spie?"
"Me lo disse uno zingaro di nome Rames, vostra eccellenza."
"Lo conoscevate già, questo Rames?"
"Sì, signore. L'ho conosciuto cinque anni fa per avergli venduto dei cavalli. Gli zingari, eccellentissimo signore, sono bravissimi quel commercio e..."
"Non ci interessano, per ora, le attività degli zingari. Attenetevi alle domande che vi vengono rivolte... Quando avete rivisto il detto Rames?"
"Quattro giorni fa, quando mi propose di lavorare ancora con lui, ma io gli ho risposto che volevo pensarci... Non si possono prendere certe decisioni, così… sui due piedi... Lui é tornato il giorno dopo e mi ha confidato d'aver scoperto un complotto contro l'Onorevolissima Repubblica di Venezia."
"Perché non ha denunciato lui stesso il complotto?"
"Per timore di non essere creduto, signore... - e qui, venne fuori l'astuzia popolana di quell'uomo e la dialettica, sottolineata da un gesticolare assai efficace, anche se un po' rigido, preoccupato com'era di nascondere timori ed emozioni - La mia modesta persona a lui pareva più adatta per far giungere la sua voce alle Vostre Eccellentissime Signorie. Io sono un povero taverniere ignorante ed inadatto a praticare  cosa come questa, ma sono di Venezia..."
Gli Inquisitori si scambiarono un'occhiata che inquietò molto l'astuto taverniere; il suo naso aquilino e stretto, di chi sa curare i propri interessi, cominciò a fremere.
"Vi ha dato particolari sul come sia venuto a scoprire il complotto contro questa Repubblica?" ripresero gli Inquisitori.
"Mi ha detto d'aver sospettato subito dei due uomini..."
"Questo gitano - lo interruppero - aveva forse motivi di rancore nei confronti dei due?"
Bortolo avvertì l'insidia della domanda.
"Questo, eccellentissimo signore, io non lo so."
"Gualberto Monco, voi conoscete la pena per coloro che si macchiano di falsa testimonianza?"
"Sì signore. Ma io ho detto la verità!"
"Volete riferire le parole che il gitano udì pronunciare dai due?"
"Sì, eccellenza. Lui raccontò che il più giovane dei due, quello che si fa chiamare Raniero e che deve essere un signore, io credo, mentre l'altro..."
Con un gesto il Grande Inquisitore pose fine alla sua loquacità di bettoliere e lo invitò a riferire solo le parole del colloquio avvenuto fra i due e Bortolo riprese.
"Disse che quello di nome Raniero avrebbe dovuto incontrare un ebreo di nome Samuelo... - e qui Bartolo cominciò a balbettare - Che gli avrebbe passato informazioni... informazioni ricevute...
ricevute da un nobile signore suo debitore e che..."
"Vi rendete conto della gravità di una simile affermazione?"  lo interruppe con cipiglio severo l'inquisitore.
"Ho giurato di dire la verità . - fece Bortolo - Se dicessi cosa diversa da questa, quella non sarebbe la verità!"
"Vai avanti."
"... e che appena avute le notizie che cercavano, - Bortolo riprese il filo interrotto del precedente discorso - avrebbero lasciato Venezia."
"Quali erano le notizie."
"La guerra con il Duca di Milano e forse la pace con lui..."
"Cosa dite mai?"
Il Grande Inquisitore scattò in piedi: la Pace con Francesco Sforza era uno strettissimo segreto.
"Io..non lo non so...- tornò a balbettare il malcapitato, bianco come un panno lavato - Lui mi disse che... quello zingaro mi disse d'aver seguito l'accusato, ma che poi ne perse le tracce perché una gondola lo fece salire a bordo."
"Dov'é ora quel gitano?"
"Nella cantina della mia taverna."
L'Inquisitore fece un cenno e due fanti affiancarono il bettoliere, sempre più spaventato e con la certezza di essere rimasto invischiato nella sua stessa rete: il giudizio dei Dieci era assai severo nei confronti dei calunniatori.