Era il primo giorno del mese, i membri del Consiglio dei Dieci erano riuniti nel tribunale della Quarantia Civile Antica e le delazioni raccolte nelle Bocche, speciali urne in cui i cittadini potevano depositare denunce e lamentele, erano ammucchiate su un enorme tavolo.
Le lettere erano state aperte tutte, ma l'accusa contro i due clandestini giunti a Venezia con la carovana degli zingari, era troppo grave perché i Dieci potessero tranquillamente continuare la seduta.
Quando sei uomini armati irruppero a Palazzo Mavera, prima ancora che la seduta fosse sciolta,
Raniero era appena rientrato ed aveva lasciato la sua salvatrice. Sorpreso, non riuscì ad opporre resistenza; Spaccamontagne, invece, era riuscito a fuggire.
Il ragazzo fu immediatamente condotto alla presenza del Consiglio per essere interrogato.
La giustizia dei Dieci era severa, il giudizio inappellabile e la condanna immediata.
Lo spirito di giustizia, in verità, era uguale per tutti e non risparmiava nessuno, nobili o plebei; gli stessi componenti del Consiglio erano costantemente sottoposti a severissimi controlli.
Secondo le usanze vigenti, detenzione preventiva, confronti e tortura, precedevano ed accompagnavano sempre gli interrogatori, che si svolgevano in una sala immersa nel buio, dove Raniero, accompagnato da un gruppo di fanti, fu condotto e fatto sedere su uno sgabello.
Non si vedeva nulla; il filo di luce che penetrava da uno spioncino lasciava appena indovinare la presenza di qualcuno; erano in tre, un Consigliere del Doge e due Inquisitori: raramente, infatti, gli imputati comparivano davanti al Consiglio al completo.
L'alba mise in fuga le ombre della notte, ma nel Palazzo Ducale il Consiglio si riuniva per la terza volta, in una di quelle sedute straordinarie che avvenivano di rado e per casi particolari.
La sala era talmente bella e sontuosa da non sembrare un tribunale, ornata da tendaggi e dipinti e confortata da comodi sedili. Il banco dei giudici ed i seggi dei consiglieri erano artisticamente scolpiti e coperti con drappi rossi e cuscini di velluto.
Il Doge, seduto su un piccolo trono, indossava una veste di velluto rosso e portava in testa un berretto gemmato, insegna della sua alta potestà.
Alla sua sinistra, sedevano tre Consiglieri, in veste rossa e stola nera. I Dieci, i terribili Dieci, sedevano più in basso; nei seggi centrali avevano preso posto i tre Inquisitori, eletti ogni anno; tra essi c'era Alvise Mavera. I rimanenti sette Consiglieri erano così disposti: tre alla destra di Mavera e quattro alla sinistra. Subito dopo sedeva l'Avogador del comune, in toga nera come gli Inquisitori.
L'Inquisitore capo, al centro dei tre, prese la parola per pronunciare la frase di rito:
"Onorevoli colleghi devo annunciarvi che si trama contro la Repubblica."
Nessun commento e l'Inquisitore continuò:
"Si faccia avanti colui che ha denunciato il pericolo che incombe sulla Serenissima Repubblica di Venezia."
I fanti introdussero il proprietario della locanda del Gambero Rosso; l'uomo avanzò nella stanza, ma si arrestò intimidito da quell'apparato e fiaccato nello spirito e nel corpo.
"Venite avanti. Non abbiate timori." lo incoraggiarono.
Bortolo fece qualche passo e si fermò di fronte al seggio del Grande Inquisitore.
"Come vi chiamate?"
"Gualberto Monco, ma tutti mi chiamano Bortolo. Sono il padrone del..."
"Non ci interessa sapere se siete o no padrone di qualcosa. Rispondete solamente alle domande che vi vengono rivolte."
"Sì, eccellentissimo signore." rispose Bortolo timidamente.
"Avete denunciato voi la presenza a Venezia di spie che cospirerebbero contro la Repubblica?
"Si, eccellenza."
"Come sapevate che fra i gitani c'erano nascoste delle spie?"
"Me lo disse uno zingaro di nome Rames, vostra eccellenza."
"Lo conoscevate già, questo Rames?"
"Sì, signore. L'ho conosciuto cinque anni fa per avergli venduto dei cavalli. Gli zingari, eccellentissimo signore, sono bravissimi quel commercio e..."
"Non ci interessano, per ora, le attività degli zingari. Attenetevi alle domande che vi vengono rivolte... Quando avete rivisto il detto Rames?"
"Quattro giorni fa, quando mi propose di lavorare ancora con lui, ma io gli ho risposto che volevo pensarci... Non si possono prendere certe decisioni, così… sui due piedi... Lui é tornato il giorno dopo e mi ha confidato d'aver scoperto un complotto contro l'Onorevolissima Repubblica di Venezia."
"Perché non ha denunciato lui stesso il complotto?"
"Per timore di non essere creduto, signore... - e qui, venne fuori l'astuzia popolana di quell'uomo e la dialettica, sottolineata da un gesticolare assai efficace, anche se un po' rigido, preoccupato com'era di nascondere timori ed emozioni - La mia modesta persona a lui pareva più adatta per far giungere la sua voce alle Vostre Eccellentissime Signorie. Io sono un povero taverniere ignorante ed inadatto a praticare cosa come questa, ma sono di Venezia..."
Gli Inquisitori si scambiarono un'occhiata che inquietò molto l'astuto taverniere; il suo naso aquilino e stretto, di chi sa curare i propri interessi, cominciò a fremere.
"Vi ha dato particolari sul come sia venuto a scoprire il complotto contro questa Repubblica?" ripresero gli Inquisitori.
"Mi ha detto d'aver sospettato subito dei due uomini..."
"Questo gitano - lo interruppero - aveva forse motivi di rancore nei confronti dei due?"
Bortolo avvertì l'insidia della domanda.
"Questo, eccellentissimo signore, io non lo so."
"Gualberto Monco, voi conoscete la pena per coloro che si macchiano di falsa testimonianza?"
"Sì signore. Ma io ho detto la verità!"
"Volete riferire le parole che il gitano udì pronunciare dai due?"
"Sì, eccellenza. Lui raccontò che il più giovane dei due, quello che si fa chiamare Raniero e che deve essere un signore, io credo, mentre l'altro..."
Con un gesto il Grande Inquisitore pose fine alla sua loquacità di bettoliere e lo invitò a riferire solo le parole del colloquio avvenuto fra i due e Bortolo riprese.
"Disse che quello di nome Raniero avrebbe dovuto incontrare un ebreo di nome Samuelo... - e qui Bartolo cominciò a balbettare - Che gli avrebbe passato informazioni... informazioni ricevute...
ricevute da un nobile signore suo debitore e che..."
"Vi rendete conto della gravità di una simile affermazione?" lo interruppe con cipiglio severo l'inquisitore.
"Ho giurato di dire la verità . - fece Bortolo - Se dicessi cosa diversa da questa, quella non sarebbe la verità!"
"Vai avanti."
"... e che appena avute le notizie che cercavano, - Bortolo riprese il filo interrotto del precedente discorso - avrebbero lasciato Venezia."
"Quali erano le notizie."
"La guerra con il Duca di Milano e forse la pace con lui..."
"Cosa dite mai?"
Il Grande Inquisitore scattò in piedi: la Pace con Francesco Sforza era uno strettissimo segreto.
"Io..non lo non so...- tornò a balbettare il malcapitato, bianco come un panno lavato - Lui mi disse che... quello zingaro mi disse d'aver seguito l'accusato, ma che poi ne perse le tracce perché una gondola lo fece salire a bordo."
"Dov'é ora quel gitano?"
"Nella cantina della mia taverna."
L'Inquisitore fece un cenno e due fanti affiancarono il bettoliere, sempre più spaventato e con la certezza di essere rimasto invischiato nella sua stessa rete: il giudizio dei Dieci era assai severo nei confronti dei calunniatori.