Ecco l'insegna del fabbro, dello speziale, del ciabattino e, proprio in fondo, quella dell'osteria.
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Sulla veste di maglia di ferro, i due portavano solamente un corsetto di metallo e sul capo l'elmo, la cui visiera, però, il ragazzo portava abbassata, nel timore che qualcuno potesse riconoscerlo.
Il compagno, che non aveva di queste preoccupazioni, esibiva, invece, la folta capigliatura che, secondo l'uso guerresco, s'era lasciata allungare fino all'altezza del collo.
Raggiunta l'osteria, i due amici legarono i cavalli ad una staccionata ed entrarono.
Vi trovarono poche persone, contadini e paesani e tutti si girarono verso di loro.
I due giovani occuparono un tavolo ed ordinarono da bere e da mangiare e subito dopo presero d'assalto un fumante piatto di pasta e lenticchie.
Raniero, che aveva dovuto togliersi l'elmo, sperando che i quattro anni trascorsi, i capelli allungati e l'accenno di barba gli avessero alterato la fisionomia del volto, pose orecchio alle
chiacchiere bisbigliate che giungevano alle loro orecchie.
Le conosceva tutte quelle persone. Nomi e mestieri: lui non aveva dimenticato una sola di quelle facce. C’era Bortolo il porcaio, Finuccio il pastore e qualche altro-
"Saranno soldati del Duca."
Era la voce del porcaio, quella che lo raggiunse alle spalle.
"Ora che la guerra con Venezia è finita, - faceva eco una seconda voce - tornano alle loro case."
"E' tornato anche Gualtiero, il figlio del fornaio ed ha portato, si dice, ricchi doni per la futura sposa."
"Oh! – sentì replicare il porcaro con accento ironico - Alla bella sposina non resterà che il ricordo di tutti quei doni: Gualtiero doveva già venti denari allo speziale, per la tassa che il conte Galeazzo ha imposto a chi si arruola."
"Ed altri venti ne dovrà pagare, - interloquì una terza voce – se vorrà sposare Isolda."
"Già! Isolda la Bella non possiede altra ricchezza che la propria bellezza e non avrebbe avuto di che pagare per avere il permesso di sposarsi, se non ci avesse pensato Gualtiero."
"Il conte Galeazzo non dorme di notte per inventare qualche nuova tassa da imporre a noi povera gente."
"Stai zitto! Vuoi finire nelle segrete del castello?" lo redarguì il pastore Finuccio che fino a quel momento aveva rivolto la sua attenzione unicamente al piatto che gli stava davanti.
"No, davvero! Non sai che i disgraziati rinchiusi nelle segrete del conte devono pagare anch'essi una tassa per sostenersi?"
"Dici davvero?"
"Come no!... Altrimenti restano a digiuno. Quel tiranno..."
"Ma vuoi tacere, mastro Certaldo? Vuoi stare zitto?"
"Zitto, zitto, zitto!...Dobbiamo sempre stare zitti, noi altri? Dobbiamo sempre chinare la testa e farcela schiacciare come l'Arcangelo Michele fa con il demonio?"
"E cos'altro vuoi fare?.. Cosa possiamo fare?"
Spaccamontagne sollevò il capo dal piatto; aveva preso solo poche cucchiaiate, interessato a quella conversazione e parve sul punto di intervenire, poi, con una scrollatina di spalle, si ributtò sulle lenticchie.
"Molto si può fare. - ancora la voce che il pastore aveva chiamato Tibaldo - Ora che la guerra é finita, il Duca dovrà pur sapere cosa accade fuori della corte di Milano."
"Sei un illuso, mastro Certaldo. – replicò l’altro, attaccandosi con le labbra alla bottiglia, quasi cercasse sostegno nel vino - Il conte Galeazzo é un vassallo del Duca e noi siamo povera gente. Chi credi che ascolterebbe in una disputa con il padrone, ehhh?... Chi ascolterebbe?...I signori si danno sempre mano l'un l'altro."
Raniero alzò il capo dal piatto.
"Vieni, andiamo. - disse al compagno - Ho ascoltato abbastanza!"
Lasciarono la locanda e cavalcarono per un pezzo.
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“Dove stiamo andando?” Spaccamontagne ruppe l’insolito silenzio che si era creato tra loro.
“Al castello.” rispose Raniero.
“Al castello?… - Spaccamontagne si girò a guardare l’amico con espressione di disapprovazione - Ma non s’era detto di aspettare il messo del Duca con i fanti?”
“Hai ragione, amico, ma… - una breve pausa, poi – Ho un grande desiderio di rivedere Letizia.”
“Letizia? E chi sarebbe codesta Letizia? E’ la prima volta che sento il suo nome.”
”E’ la fanciulla che mi ha conquistato il cuore. – gli occhi del ragazzo brillarono; la voce aveva assunto un tono che assai raramente l’amico gli aveva sentito – Prima di lasciare il castello le ho promesso che sarei tornato e l’avrei liberata da una promessa che la lega a forza ad un altro uomo… Un uomo che è il mio peggior nemico.” proruppe con voce colma di rancore represso.
“Oh!… Capisco! I tuoi nemici sono anche i nemici di Giovanni Spaccamontagne… lo sai! Continuo ad insistere, però, che penetrare nel castello senza la protezione del Duca è una pazzia.”
“Ci andrò da solo. Tu andrai incontro al messo del Duca ed ai suoi fanti e…”
“Ah, no! – l’altro non lo lasciò finire – Credi davvero che il tuo amico Spaccamontagne ti lascerebbe entrare da solo nella tana del lupo e perdersi qualche bella scazzottata?… No! Ti ho già lasciato una volta da solo e vedi in che guaio…”
Questa volta fu Raniero ad interrompere l’amico:
“… mi sono cacciato, ah.ah.ah… - rise, mutando voce ed espressione del volto - … e tu mi ci hai tirato fuori e sono certo che farai lo stesso anche adesso se mi ci ficcassi ancora.”
“Questa volta la testa in qualche guaio voglio cacciarla anch’io e per questo vengo con te al castello… se proprio non puoi aspettare un giorno o due ancora.”
“Sei davvero un amico!”
“Però si fa come dico io.”
”Sarebbe?”
“Con un bel travestimento! Da frate, preferibilmente… Con un bel saio addosso nessuno ci riconoscerebbe mai, dopo averci visti con queste vesti.”
“Un saio?”
“So dove procurarmeli… Ho… avevo – si corresse – avevo un nascondiglio proprio da queste parti. Piuttosto – aggiunse con aria dubbiosa – sei sicuro che al castello non ci sbatteranno fuori a pedate?”
“No! – lo rassicurò il ragazzo – Proprio in questo periodo i frati dell’Abbazia vengono al castello per chiedere la loro elemosina. Non ci scacceranno. Mio zio, il conte, non ha mai osato infrangere questa tradizione. Non ci scacceranno. – ripeté – Ci inviteranno alla loro tavola e dopo ci daranno l’elemosina.”
“Deve essere umiliante stendere la mano in casa propria.”
“Non darti pena per me, amico mio. – scandì il giovane – Questa stessa mano che oggi si stenderà,
Era invalsa, tra i signorotti di campagna, la consuetudine di stendere in tavola una tovaglia di pasta di pane non cotta su cui venivano deposte portate ed intingoli; alla fine del banchetto la tovaglia veniva buttata, dall’alto di una finestra, al popolo affamato che vi si gettava sopra come un branco di lupi.
I due giovani si fecero largo in mezzo a quella folla che dovette riportare in Spaccamontagne lontane rimembranze, poiché esclamò.
"La prima volta che mi feci spaccare il naso fu per una quaglia farcita al miele, qui... sotto le mura di castello Pisano."
"Mi riesce difficile immaginare che qualcuno sia capace di simile impresa." replicò Raniero.
"Avevo otto anni ed il mio avversario almeno quindici, però, riuscii a portargli via la quaglia, senza problemi… ah,ah,ah..."
Raniero però non rise e con accento grave esclamò:
"Non accadranno più cose di questo genere: questa é l'ultima volta che vedo gente affamata sotto le mura del castello azzuffarsi per un pezzo di pane."