Dopo aver incrociato quello di Alì, lo sguardo di Isabella vagò verso lo sfuggente orizzonte; navigò, in un addensarsi di fluttuanti vapori, oltre le spalle del ragazzo e naufragò in infinite distanze, prima di infrangersi contro la Cima, la montagna messa lì dagli Dei a vigilare il sonno dei Faraoni e delle loro Spose.
Con la sensazione che lo spirito si muovesse all’interno di un incantesimo, attraversò la montagna e si spinse oltre il deserto, il fiume e la città e raggiunse la terrazza… la terrazza del Palazzo Reale di Tebe che, da quell’altezza dominava ogni cosa: i tetti delle case, le cime dei Templi, le sommità dei Piloni, le acque del Nilo.
“Nefer… Occhi Lucenti. Piccola signora, ecco che ti ritrovo.”
Una voce raggiunse alle spalle la principessa Nefer… Isabella-Nefer, la figlia minore del Faraone, costringendola a girare il capo; il gesto fece tintinnare gli orecchini di lapislazzulo, che sparsero sul suo bel volto una luce azzurrina.
Un turbinio di pensieri, di emozioni e sensazioni sconosciute scompigliavano il suo cervello: si sentiva come appena uscita da un sogno fantastico. Alzò la mano per toccare gli orecchini e lo sguardo cadde sui fianchi, su cui scendevano, morbide, le pieghe di una tunica di lino trattenuta in vita da una cintura dorata; una sciarpa a frange sulle spalle, calzari di papiro ai piedi, completavano il suo abbigliamento.
“Che strano sogno…che strane genti. – pensò, poi sorrise alla donna che l’aveva raggiunta, d’età matura, bassa e grassottella, che la fissava con occhi ossequiosi ed affettuosi – Guarda quei due ibis, Merende. Guarda il loro volteggiar sui tetti.” disse.
“La mia piccola sognatrice! Sempre ad inseguire il volo degli ibis, sempre persa dietro le fantasie.” sorrise la vecchia e le rassettò con gesto amorevole la veste di lino pregiato.
“Io volo lontano con gli ibis, nutrice. Lascio queste stanze e sogno luoghi meravigliosi e genti misteriose… Se tu potessi conoscere, nutrice, i mondi meravigliosi in cui mi portano i miei sogni!” sospirò e la donna sorrise.
La principessa Nefer detestava gli odori penetranti delle stanze del gineceo, quelli dell’incenso e degli unguenti. Lei amava il profumo della lavanda, dell’iris e del loto che rallegravano la terrazza. Detestava la penombra di stanze e corridoi ed amava la luce e il richiamo del mondo che proveniva da oltre le siepi della terrazza e correva lassù tutte le volte che le era consentito farlo.
Quel mattino, però, non restò a lungo da sola. Un allegro cicaleccio la investì alle spalle: le principesse Agar, Nefrure, Amksenammon, le sue sorellastre, con le ancelle, avevano invaso quel posto trasformandolo in un allegro salotto. Sguardi, sorrisi e parole sfioravano speranzosi le strade sottostanti, i tetti dove le ancelle soleggiavano le lenzuola e le acque del Nilo in piena.
Due ancelle avevano portato rocche e fusi per filare; Nelle loro mani i fili di lino rilucevano ancora d’olio; l’olio era necessario per ottenere quella brillantezza per cui le tele di Tebe erano famose.
Nefer prese subito un fuso ed un rocchetto di lino; la grossezza, però, indicava che non era al lavoro che stava dedicando la sua attenzione.
Da qualche tempo, la principessa Nefer era sempre distratta, trasognata e attratta da mondi lontani.
“Arrivano. – una voce la strappò alle sue riflessioni – Ecco le navi di Ugarit.”
“Gli ambasciatori di Ugarit viaggiano su quelle navi per chiedere al Faraone una figlia in sposa per il loro Sovrano.” disse Agar che, in punta di piedi, aggrappata alla ringhiera per vedere meglio, scrutava le acque del Nilo, rigogliose in quella stagione.
Agar era molto bella; il fisico era agile e snello e la pelle era luminosa, come attraversata dal sole. Era, tra le sorelle, la preferita di Nefer perché ribelle e contestatrice quanto lei e perché come lei, anche Agar aveva un unico desiderio: volare via da quel nido dorato. Presto anche lei sarebbe salita su una nave come quella: da Ur erano venuti per lei ambasciatori a chiedere la sua mano per un principe babilonese.
Gruppi di operai, di sotto, spingevano, su grosse sfere, un obelisco assicurato ad un lastrone di legno. Nefer seguiva con aria assente i loro movimenti.
“Presto arriveranno ambasciatori anche dalla Colchide” disse ancora Agar.
Agar era sempre informata su tutto, era sempre al corrente di ogni cosa e Nefer non aveva motivo di dubitare della sua affermazione: Agar sentiva e vedeva le cose prima ancora che accadessero e apparissero.
“Colchide? E dove si trova?” domandò sporgendosi anche lei oltre la balaustra; i lunghi capelli neri e setosi, agitati dal vento di primavera, sembravano ali di ibis spiegate nel cielo; la pioggia era caduta ininterrotta per molti giorni e l’aria s’era fatta più tersa.
“Molto lontano. E’ una città posta sotto la protezione di un Ariete Sacro dal Vello d’Oro.”
Nefer fece l’atto di riprendere la parola, ma una voce gioiosa alle spalle glielo impedì, costringendola a voltarsi.
“Thutmosis…” esclamò.
Thutmosis era suo fratello, più giovane di lei di un anno. Come tutti i maschi, all’età di sei anni aveva lasciato il gineceo per essere destinato alle armi o a qualche Dicastero.
Da quanto tempo non lo vedeva! Molte primavere erano passate dal giorno in cui era salito su una nave dei marinai del Popolo della Porpora.
“I marinai più valenti del mondo ed i più ardimentosi. – diceva di loro il Faraone – Più ancora dei Popoli di Mare.”
I Popoli di mare venivano da molto lontano; arrivavano da città dai nomi strani: Corinto, Cnosso, Creta, tutte sotto la protezione di un Toro Sacro e su cui si raccontavano storie paurose ed inquietanti. Quei Popoli avevano assalito l’Egitto ed erano così sicuri della vittoria, da trascinarsi dietro le famiglie. I soldati del Faraone, però, e Tuthmosis con loro, li avevano ricacciati in mare.
“Thutmosis! - ripetè la principessa Nefer tendendo le braccia al fratello – Ma come sei cresciuto!”
D’improvviso, però, proprio mentre le braccia tese sfioravano quelle del fratello, un etra fluttuante ed impalpabile circondò il volto di Thutmosis ed ogni cosa andò sfocando. Una sensazione mai provata prima, l’assalì, come il distaccarsi da se stessa, il camminare, l’andare dentro lo spirito.
“Thutmosis… “ chiamò.
Aprì gli occhi e, sotto un sole che le ingiuriava lo sguardo, vide il volto preoccupato di Alì e quello sfingeo di Osor, chini su di lei.
“Thutmosis… - chiamò ancora, poi – Ma… dove sono? Dov’è Thutmosis?... Voi… tu sei Alì e tu… sei Osor… Siete proprio voi?”
“Sta delirando. - Isabella sentì la voce di Alì provenire da una distanza remota - Isabella… sei tornata? Stavi delirando. Chiamavi un certo Thutmosis, parlavi di Creta e Colchide,… Arieti e Tori Sacri…”
“Che cosa è successo?” domandò, appena rientrata completamente in sé; le orecchie le ronzavano e dietro la fronte, pensieri e sensazioni correvano come anatre attaccate dal cacciatore.
“Sei stata morsa da uno scorpione. Non ricordi? – spiegò Alì - Osor ha guarito la tua ferita, ma non chiedermi come ha fatto.”
“Oh, sapessi che strano sogno. Mi trovavo… mi pareva proprio d’esserci.”
“Dove?”
“ A Tebe. Nell’antica città di Tebe. Il mio nome era Nefer… sì, come la principessa della tomba rinvenuta. E’ stato un sogno, ma era così reale… E’ stato un sogno, vero, Osor?” domandò.
Osor, la creatura prodigiosa scosse il capo.
“No…non è stato un sogno? – sbalordì la ragazza - Cos’è stato, allora? Se non è stato un sogno che cosa è stato?”
Il volto del Guardiano restò una sfinge.
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