Capitolo IV - terza parte

Capitolo  IV  - terza parte

 Capì d’essere stata rapita, ma era ancora così stordita da non riuscire a raccogliere le idee.
Passò qualche attimo. Tutto era silenzioso; tutto taceva. Da lontano, però, giungevano rumori ben distinti. Si rese conto di essere sola e si guardò intorno: un tavolino coperto di scartoffie, due o tre sedie, un calendario appeso alla parete e in un angolo un gran numero di casse.
“Dove mi trovo? – pensò  – Sono stata rapita?”
Rumori alla serratura della porta la misero in allarme; finse di dormire, ma un violento getto d’acqua sul volto la fece sussultare e riaprire gli occhi.
“Mi spiace. – disse una voce maschile; erano in due – Era l’unico modo per svegliarti, Dobbiamo andare via di qua.” aggiunse togliendole il bavaglio.
“Chi siete? Perché mi avete portata qui?” domandò la ragazza.
“Niente domande.” fece bruscamente l’uomo, ma il compagno:
“Vogliamo scambiarti con qualcosa che possiede tuo padre.” interloquì.
“Chiudi il becco, imbecille!” lo rimproverò il compagno.
“Cerchi guai?” scandì l’altro.
“Io?… Sei tu che li cerchi…marocchino!”
Solo allora la ragazza si accorse che l’altro, un ragazzo sui diciotto o venti anni, era di colore.
“Senti, padrone, - lo sentì dire con accento di sfida rivolto al compagno – In questa faccenda avete tutti da perdere senza di me…”
“Va bene! Va bene, signor Omar” capitolò l’altro.
“Così va meglio!…Ma basta solo Omar.” e sorrise, poi slegò i piedi della ragazza e la prese per un braccio, lasciandole, però, le mani sempre legate.  La condusse verso l’uscio.
Passando davanti al tavolo, Emma riuscì a leggere della carta intestata: la stessa intestazione del calendario. “Daltieri e Figli” c’era scritto.
Appena messo piede fuori, si accorse d’essere in un cantiere edile, ma non riuscì a capire il posto.
Fu fatta salire su un furgone ed Omar dietro di lei, mentre l’altro prendeva posto alla guida.
Il tragitto si svolse nel più assoluto silenzio e durò quasi mezz’ora, poi la vettura si fermò davanti ad una casa di campagna un po’ discosta dalle altre abitazioni di un paese  di mezza montagna.
Riconobbe il posto. Era Sant’Ambrogio, un paesino a pochi silometri dai laghi di Avigliana. Ci era stata qualche volta da un amico di famiglia che aveva casa da quelle parti.
La fecero scendere ed entrare in casa. Il mobilio era vecchio e privo di ogni pretesa: tavolo, due sedie ed una brandina.
La fecero sedere al tavolo ed Omar sedette vicino a lei.
“Hai fame?” chiese.
“Un po’!” rispose la ragazza.
Le dettero da mangiare due panini con prosciutto e un grappolo d’uva; anche i due mangiarono panini e uva, ma in quelli di Omar non c’era prosciutto, naturalmente, bensì del formaggio.
“Che cosa volete da mio padre?” domandò a bruciapelo la ragazza.
“Non ho voglia di parlarne.” rispose il rapitore con la bocca piena, Omar la guardava senza parlare e pensava solo a mangiare.
“Ma io so che cosa volete.” continuò la ragazza.
“Se lo  sai perché lo chiedi?” rispose l’uomo, consultando l’orologio.
Trascorse quasi un’ora, nel più assoluto silenzio, poi l’uomo, rivolto ad Omar gli disse:
“Vai e fai esattamente quello che devi.”
Omar lasciò la sedia e la stanza senza una parola ed Emma rimase sola con il suo rapitore.
“Che cosa succede se mio padre non vi darà quello che chiedete? domandò ed intanto pensava a qualche soluzione per uscire da quella situazione.
“Dovrà farlo.” rispose l’uomo accennando alla pistola posata sul tavolo.
“Mi fanno male i polsi.” si lamentò Emma.
“Mi dispiace, ma devi restare legata fino all’arrivo del capo.”
“Verrà qui?”
“Non seccarmi. Dannazione!”
Una decina di minuti ancora, poi una macchina si fermò rantolando e l’uomo che l’aveva rapita comparve sull’uscio.
“Devi scrivere una lettera. a tuo padre.” disse costui, senza preamboli e scambiando un’occhiata con il complice.
“Lei non è il professor Socrato. – Emma lo fissò bene in volto – Adesso mi ricordo… ho visto il professore in fotografia con mio padre e non è biondo e neppure zoppo..”
“Chiamami ancora zoppo e non avrai più modo di scrivere alcuna lettera!” la investì la voce irosa dell’uomo; il complice tentò di calmarlo.
“Calma! Tranquillo! – disse sciogliendo le mani della ragazza – Lasciala scrivere…”
Emma si ritrovò le mani libere; le dettero una penna ed un foglio e le dettarono queste parole:
“Sto bene, ma dovrete fare quello che dicono. Non state in pena ed aspettate nuove notizie.”
“Firmati!” intinm lo zoppo ed Emma si firmò e gli consegnò il foglio.
L’uomo lo prese, lo piegò ed infilò in tasca, poi si girò per avviarsi verso l’uscio; qui lo raggiunse la voce di Emma.
“Che cosa volete da mio padre?”
L’uomo si fermò, si girò e disse:
“Sei parte in  causa anche tu ed è giusto che anche tu sappia… Vogliamo il nuovo computer progettato da tuo padre.” disse.
“Lo immaginavo, – rispose la ragazza – ma non l’avrete mai.”
“Se tuo padre è un uomo intelligente capirà che facciamo sul serio e… augurati che capisca, piccola!” e con queste parole, l’uomo le voltò nuovamente le spalle e lasciò la stanza.

Emma rimase nuovamente da sola con il suo carceriere e la mente entrò subito in azione. Doveva trovare il modo di fuggire. Lo aveva visto fare tante volte in televisione o al cinema. Aveva seguito tanti casi di evasione… nella storia, nella letteratura… doveva solo  mettere in atto un piano.
“Accidenti! – imprecava tra sé – A cinema sembra così facile! Su… su, Emma, spremi le meningi.”
L’idea gliela dette lo stesso carceriere allontanandosi un attimo nella toilette.
“Ho bisogno anch’io di andarci.” disse appena lo  vide uscire.
L’uomo la squadrò da capo a piedi, dubbioso ed incerto.
“Ho detto che ho bisogno di ansarci anch’io!” ripeté la ragazza con accento fermo.
“Niente scherzi!”
“Se ne avrò l’occasione non starò a pensarci – rispose Emma, poi aggiunse –Ma… ma pensi davvero che potrei sgattaiolare giù dalla finestra del bagno?”
“E va bene!” capitolò l’altro.
Emma raggiunse il bagno.
Piccolo ed angusto, sporco ed umido, ma con il grosso pregio di avere una finestra sul ballatoio ad un passo dalla porta d’ingresso.
“Ehi, ragazzina! – tuonò l’uomo – Parla. Voglio sentire la tua voce.”
“Ti piace la mia voce?”
“Sì! Mi piace! Fammela sentire.”
“Eh.Eh…. Cosa credi che possa fare? – e intanto che parlava, Emma maturava l’idea per scappare. Spalancò la finestra, ma non saltò fuori – Vuoi che canti una canzone?” disse, ricomparendo, invece, sulla porta e riavviandosi i capelli.
“Voglio che  non mi combini scherzi, ragazzina.”
Emma tornò a sedere e lasciò trascorrere altri cinque o sei minuti.
“Ho bisogno di andare nuovamente a gabinetto.” disse.
“Ma dì un po’… Hai mangiato prosciutto o fagioli, poco fa…. ah.ah.ah…” rise quello.
“Spiritoso!… Insomma!… Ho bisogno di andare ancora in quel posto.”
“Vai. Vai pure, ma…”
“… niente scherzi…. Lo so!”
“E voglio sentire la tua voce.”
“Non ci sono difficoltà! Ho una bella voce e mi piace cantare.”
Emma tornò in bagno e intanto che parlava e aumentava il tono della voce, scavalcò la finestra, ripassando nella mente ognuno dei particolari di quel piano di fuga: troppo semplice, ma che proprio per questo non poteva non riuscire.
La pistola del carceriere era sul tavolo e il tavolo vicino alla porta: doveva solo scavalcare la finestra, rientrare dalla porta e prendere la pistola.
Se l’uomo avesse agito d’istinto si sarebbe precipitato verso il bagno, se invece avesse ubbidito alla logica, si sarebbe precipitato verso la pistola.
L’uomo agì d’istinto. Agì d’istinto proprio come la ragazza si aspettava.
Rientrata dalla porta, Emma afferrò la pistola e tornò fuori. Quando l’uomo si affacciò alla finestra del bagno, Emma era ad attenderlo con la pistola puntata.
“Dentro! – gli ordinò – Te l’avevo detto che avrei tentato di squagliarmela se ne avessi avuto l’occasione. Dentro ho detto!… E chiudi la finestra.”
L’uomo ubbidì e la ragazza sprangò la finestra dall’esterno; lo stesso fece con la porta, poi lasciò la casa e si allontanò di corsa verso il paese.