CAPITOLO VIII - La fuga

CAPITOLO  VIII  -   La fuga

 

Lasciata la locanda, i tre ragazzi  cercarono un mezzo di trasporto per raggiungere l’altra riva.
Un gran numero di imbarcazioni solcavano le acque del Nilo: a vele, a remi, in papiro o acacia, sicomoro o cedro del Libano.
C’erano anche grosse chiatte manovrate da dozzine di rematori e numerosi barconi per trasporti pesanti blocchi di pietra, trainati da piccole barche; in piedi a prua, un uomo misurava l profondità delle acque con lunghe pertiche
Non restava, ai tre, che scegliere tra le tante barche quella che li avrebbe traghettati al di là del fiume.
“Come facciamo a raggiungere l’altra sponda? Non abbiamo di ché pagare.” fece osservare la ragazza.
“Devi dirmi solo su quale barca vuoi salire.” rispose il fratello.
Le barche portavano nomi come: Toro Selvaggio, Occhio di Horo, Adorazione di Ammon e altro.
“Voglio salire sul Toro Selvaggio. –disse Nefer – Però, sono curiosa di sapere come farai, senza farti riconoscere.”
I tre, infatti, per non farsi riconoscere avevano indosso vesti da servi e Thotmosis vi aveva nascosto sotto, il pettorale da Ufficiale delle Guardie Reali.
“So io come fare. – il ragazzo si portò le mani attorno alla bocca a mò di conchiglia e gridò – Ehi… Voi del Toro Selvaggio, accostate a riva e fateci salire a bordo.”
“Perché dovremmo farlo?” risposero dalla barca; Xanto assisteva in silenzio.
“A me pare che sulla vostra barca ci sia posto anche per noi e le Scritture dei Saggi dicono: Accetta il pedaggio di colui che è ricco e lascia passare chi è povero… Se non farai questo, sarai punito perché le Scritture dicono anche: Colui che compie il male, la riva lo respinge e l’acqua della piena lo trascina e che…”
Dalla barca, che stava già accostando, cercavano inutilmente di prendere la parola.
“Quanto hai – continuava imperterrito il ragazzo – è dono di Dio che dà e toglie quando vuole…”
“Perché mi auguri disgrazie? – riuscì finalmente ad interromperlo il proprietario della barca, spaventato da eventuali disgrazie – Ti ho, forse, negato il passaggio?”
Fu così che i tre riuscirono a raggiungere la riva opposta, anche questa affollata di barche e barcaioli, zattere e caricatori, soldati e operai.

Si aprì davanti a loro la Città dei Morti, riarsa e gialla, su cui Horo picchiava implacabile già a quell’ora del mattino.
Allontanandosi dal greto, arruffato di radi cespugli di canne e qualche esile palma, i tre avanzarono verso l’interno di un anfiteatro naturale, suggestivo, inquietante e arido.
Non era la prima volta che Nefer metteva piede in quella terra arroventata, ma ogni volta l’inquietudine era la stessa.
Non che avesse paura di morire, considerando la morte un naturale “passaggio”, necessario per lasciare la vita “al di qua” e ritrovarla “al di là”: era piuttosto il timore di non essere adeguatamente preparata all’evento.
La sua nutrice le aveva spiegato che “questa vita” altro non era che la concessione degli Dei fatta alla creatura umana di permetterle di prepararsi a ”l’altra vita” e procurarsi tutto il necessario sul piano materiale e magico rituale.
Nefer, però, sapeva che molto spesso le Hut-Ka,  le “dimore dello spirito defunto”, passavano di mano in mano ed era necessario che l’ultimop occupante disponesse di amuleti efficaci e formule magiche per poter neutralizzare le maledizioni dei precedenti “sfrattati”. Lei sapeva che coloro i quali non possedevano una buona tomba, non avrebbero goduto, nell’altra vita, di alcuna considerazione e che…
“Per la Barba di Ammon!”
L’esclamazione di Thotmosis la distrasse dalle sue riflessioni.
Nefer si guardò intorno e la Valle del Silenzio le apparve tutt’altro che silenziosa: operai, mercanti e soldati. Soprattutto soldati, armati e dall’aria minacciosa.
Il principe Xanto non poté non farlo notare agli amici:
“Che cosa ci fanno assembrati qui, tutti quei soldati?… E’ tutto l’esercito del Faraone?”
“Per la Barba di Ammon! – ripeté il principe di Tebe – Hai proprio ragione! Non ho mai visto tanto spiegamento di soldati, quaggiù!”
“Saranno qui per me? – domandò in tono apprensivo il fuggiasco – Mi cercano in ogni dove: la mia fuga è una sfida per il Re di Sparta, che vuole esibirmi come trofeo di guerra, quando sarà tornato nella sua terra… Così come suo fratello,  il re Agamennone, ha fatto con mia sorella, la principessa Cassandra ed Odisseo con la regina Ecuba.” aggiunse in tono carico di doloroso rancore.
“Non temere. – lo confortò Nefer – Nessuno riuscirà a mettere in catene il principe Xanto.”
“Sono sicuro che la ragione di tanto spiegamento di forze abbia un altro motivo.” disse Thotmosis.
“Il principe Thotmosis ha ragione. – una voce alle spalle li costrinse tutti a voltarsi – Questi soldati sono qui per una causa di giudizio.”
“Ankheren!” esclamò il principe Thutmosis riconoscendo nel ragazzo che gli stava di fronte l’amico di tante sortite fatte in passato assieme alla sorella. (vedere libro: IL GUaRDIANO DELLA SOGLIA)
“Sono proprio Ankheren, mio signore.” Fece l’altro, sprofondandosi in un inchino che gli portò la punta delle dita a toccare quelle dei piedi.
“Ma che cosa ci fai qui, amico mio?” Thotmosis lo invitò a rialzarsi.
“E’ una domanda che dovrei fare io a te, mio signore, se mi concedi la confidenza e…”
“Non ti ho concesso solo quella, amico mio, ma anche di chiamarmi con il mio nome… se lo ricordi ancora, ah.ah.ah…” rise il principe.

Ankheren, figlio del custode dei tori del Tempio di Ptha, sollevò gli occhi quieti e da sognatore, colmi di vivacità a brio, in faccia al suo principe.
Fronte ampia e ben modellata, seminascosta da una folta frangia di uno scuro corvino, Ankheren era un ragazzo sicuramente interessante. Alto, longilineo e le spalle atletiche. Portava, con una certa signorile eleganza, il pettorale da allievo del Tempio del Dio dal Cranio Rilucente e Calvo: Ptha, Protettore delle Arti e degli Architetti. 
Il ragazzo si girò verso la principesa Nefer poi si passò sul perizoma che gli cingeva i fianchi la mano sinistra armata del punteruolo, prima di portarsela alla fronte in segno di saluto. Abbassò lo sguardo, poi:
“Gli Dei tutti, nelle loro dimore di lapislazzulo, sono tristi e malinconici perché tu sei qui, Figlia degli Dei, a rallegrare noi mortali.” recitò l’impareggiabile allievo di Ptha.
Thotmosis scoppiò in una sonora risata e disse:
“Non ci hai ancora detto che cosa ci fai da queste parti… Sei lontano dal Tempio di Ptha.”
“Le voci che arrivano dall’altra sponda, - rispose il ragazzo indicando le cime dei Piloni di Tebe, sulla riva opposta – qui, volano veloci sulle ali delle cicogne e parlano dell’arrivo del principe Thotmosis e di un fuggiasco…”
Xanto non lo lasciò finire.
“Lo dicevo io! – esclamò – E’ per me  che si è mobilitato metà dell’esercito d’Egitto.”
Ankheren spostò su di lui lo sguardo e lo fissò con la stessa familiarità che gli concedeva il principe di Tebe, poi disse:
“E così, sei tu quel fuggiasco!… No! Quei soldati non sono qui per te…”
A questo punto fu Thotmosis che non lasciò finire lui e disse:
“Il principe Xanto è sotto la mia protezione ed io ti chiedo, amico mio, di trovargli un rifugio dove possa nascondersi prima di riprendere il mare in sicurezza.”
“Seguitemi. – disse pronto l’allievo di Ptha -Conosco il posto adatto.”

Fecero qualche passo oltre gli stretti vicoli che correvano fra gli intrichi delle case di mattoni di fango del villaggio degli operai, poi Ankheren si girò verso Xanto.
“Metti il cuore in pace, principe Xanto. – disse – I soldati non sono qui per te. Il principe Sekenze ha ordinato il pattugliamento di tutta la zona per acciuffare i profanatori della tomba della regina Hetepheres.”
“Ma certo! - esclamò Thotmosis – A Tebe non si parla d’altro che della misteriosa ricomparsa di una collana appartenuta alla madre del Faraone e sepolta con lei alla sua morte. Ma dimmi, Ankheren, come sono andati i fatti?”
“Un po’ come la collana che offrimmo a Mertseger… Ricordate? – il ragazzo guardò anche la principessa – Uno straccioncello ha tentato di venderla ad un mercante, che l’ha consegnata alle guardie e le guardie hanno “esaminato” il ladro con le loro verghe, facendogli confessare in che modo quella collana, sepolta con il corredo funerario della Regina, sia uscito dalla tomba.”
“Vuoi dire che la tomba della regina Hetepheres è stata profanata?” chiese assai turbata Nefer.
“Proprio così! – assentì con un cenno del capo l’allievo di Ptha – Il sepolcro è stato richiuso e sono stati apposti nuovi sigilli.”
“A profanare quella tomba – interloquì Xanto, che per tutto il tempo aveva ascoltato tacendo – deve essere stato qualcuno che si è servito della complicità di chi l’ha costruita e che… forse, - aggiunse con lieve titubanza – può perfino aver apposto, successivamente, i nuovi sigilli.”
“E’ proprio questa l’opinione del principe Sekhenze . – assentì Ankheren – Egli ha affidato l’incarico di indagare al Sacerdote di Bes: Osor l’Esposto… Osor ha occhi e orecchie dappertutto. – aggiunse con un sorriso che gli distese le labbra carnose – E’ al corrente del movimento di ogni sasso o granello di pietra. Osor l’Esposto sa anche del vostro arrivo e del vostro protetto.”
“Osor l’Esposto! – esclamò in tono assai lieto la principessa Nefer – Osor ci potrà dare tutto l’aiuto possibile.”

Osor l’Esposto, sacerdote di Bes il Combattente, Signore degli Spiriti e Protettore di Horo Perseguitato, era la persona giusta per quell’impresa.
Il Deforme Bes, raffigurato con alidi Falco, corona di piume, criniera di leone e piedi armati di coltelli, misterioso e combattivo, godeva, nella Città dei Morti, di grande  considerazione. La stessa che era riposta nel suo Sacerdote: Osor,l’Esposto. (vedi libro: IL GUARDIANO DELLA SOGLIA)

“Se qui, come pare, sono tutti al corrente della nostra presenza –interloquì Thotmosis – Il principe Xanto potrebbe essere in pericolo.”
“Mosè, lo scultore, lo nasconderà al Tempio di Ptha. – lo rassicurò Ankheren – Mosè è il mio maestro e mi onora della sua amicizia.”
“Fino a quando potrà restare nascosto nel Tempio?” si informò Nefer, ansiosa di mettere in salvo il fuggiasco, ma triste per dovergli dire addio.
Qualcosa, infatti, stava nascendo dentro di lei, mai provato prima per alcuno. Era un sentimento che le dava la sensazione di essere prigioniera di un sortilegio e la faceva sentire dolcemente catturata, come gli ibis intrappolati nei telai dei suoi ricami.
Neppure il principe Xanto, da parte sua, pareva essere immune a quella meravigliosa malia. Lo si vedeva dagli sguardi con cui avvolgeva la principessa di Tebe: dolci come una carezza. Lo si leggeva dai bagliori che partivano dai suoi occhi, neri e ardenti come fari accesi, quando si posavano sul volto e sulla figura di lei. Lo si coglieva perfino dai lunghi silenzi pieni di malinconia.
“Un carico  di granito è in arrivo dalle cave del Neged, destinato ai cantieri di Pi-Ramesse. – spiegò Ankheren – Dopo una sosta di qualche giorno a Tebe, riprenderà il fiume con una grossa nave. Il capitano è mio amico ed a lui chiederò di prendere a bordo il principe Xanto.”
“Va bene! - assentì Thotmosis – Andiamo dallo scultore Mosè. Osor l’Esposto ci raggiungerà presto: il Figlio di Bes sa sempre quando si ha bisogno di lui.”

Per raggiungere in Tempio di Ptha, nel cuore della Città dei Morti, i quattro ragazzi, lasciarono il villaggio  e si immisero su una strada sterrata e frequentatissima, percorsa da una moltitudine di gente. A piedi, alla guida di carri trainati da buoi, di asini someggiati fino all’inverosimile, quella folla era diretta o proveniente dalla “Sede della Bellezza” e dalla “Sede della Verità”, che i posteri chiameranno “Valle delle Regine” e “Valle dei Re”. Lavoravano alle tombe delle Regine e dei Re. Erano architetti, pittori, operai, scalpellini,  vasai, orefici, scribi e altri ancora che, con la loro opera assicuravano Gloria ed Immortalità ai loro Sovrani.
Terminata la strada maestra, il gruppo prese a percorrere un viottolo sabbioso e ciottoloso che fuggiva dietro una collina; il rovente respiro di Horo soffiava sopra le loro teste.
Alla Casa del Patrono delle Arti e dell’Architettura, arrivarono dopo un breve, ma assai disagiato, percorso e si diressero subito verso il Laboratorio-Scuola del Santuario.
Era qui che i figli degli artisti e degli operai della Città dei Morti imparavano a leggere e scrivere.
Il Laboratorio del Tempio di Ptha godeva di un prestigio riconosciuto solo ai grandi complessi templari. Gli insegnanti erano qualificati e di vasta cultura: sacerdoti e scribi, tutti prescelti e tutti capaci di leggere e scrivere; molti  di loro erano anche capaci di disegnare e scolpire, come il giovane Mosè che,come tutti gli altri, aveva ereditato il mestiere dal padre.

I quattro amici lo trovarono nel suo laboratorio, nonostante fosse giorno di riposo, completamente assorbito dal proprio estro e dalla propria creatività. Con lui c’erano una mezza dozzina di artisti presi come lui da “sacro fuoco dell’arte” e con compiti ben precisi da assolvere: misurare, disegnare, scolpire, rifinire, colorare.
Ovunque c’erano sparsi scalpelli di bronzo, mazzuoli di legno, accette e pialle, ma la maggior parte di quell’enorme stanzone era occupato da statue.
Completate, rifinite, da rifinire o solamente abbozzate, erano in gres, scisto, granito, alabastro oppure legno. Grandi o piccole, singole o in gruppo, erano adagiate per terra, in piedi o appoggiate  alle pareti.
Ankheren si fece avanti e si fermò alle spalle di un giovane alto e snello, nero di capelli che con un grosso pennello di setole stava liberando dai residui di polvere una statua appena ultimata.
“Mosè, generoso amico e valente scultore. – salutò –La benevolenza di Ptha, Signore del Sacro Tornio, sia con te.”
Il giovane si voltò, mostrando un volto amabile e uno sguardo un po’ svagato: da sognatore.
“Vieni avanti, mio giovane amico! – rispose, accompagnando il saluto con uno smagliante sorriso poi, scorgendo la principessa Nefer e gli altri – Siano i benvenuti anche gli amici del mio amico. – aggiunse facendo un compito inchino in direzione della ragazza, poi li invitò a seguirlo verso l’interno – Venite. Voglio mostrarvi la mia ultima opera.”

Passarono nel retro, un ambiente più piccolo o, forse, sembrava tale perché completamente occupato da statue, colonne, porte,  false porte, e numerosi altri oggetti di squisita fattura.
Erano le statue, però, il vanto di quel Laboratorio: statue di Divinità e Faraoni, Dignitari e comuni mortali. Tutte, però, erano colte in atteggiamenti di serena quiete, di compostezza, di estrema solennità e con piacevole risultato artistico: Divinità dall’aspetto umano e Sovrani in atteggiamenti divini; principi e sacerdoti con vesti di rappresentanza ed insegne di appartenenza.
Erano statue con funzioni ben precise: ricordare, celebrare, proteggere, ascoltare, perché la statua non si limitava a “rappresentare” la persona: “era” la persona e, con l’ausilio del rituale magico appropriato, doveva partecipare alla vita, in qualunque posto venisse collocata: strada, città, tempio.

“Eccoci arrivati. - il giovane Mosé si fermò davanti ad una scultura di legno pregiato, alta quasi due metri – I miei amici possono vedere quello che esce dalle mani di Mosè, quando lavora con la materia preziosa.” disse, con comprensibile orgoglio.