Smith non aveva fatto molta strada. Lo videro da lontano mentre procedeva spedito lungo uno di quei budelli che si aprivano alla periferia della città. Isabella si appoggiò al braccio del prodigioso Protettore, come spesso faceva, e, come spesso accadeva, si ritrovò dall’”altra parte”, insieme al gruppo di amici in fuga.
C’era il giovane Amenemhat alla guida del gruppo e con passo sicuro lo stava conducendo verso una sala ipostila, a cielo aperto.
Il ragazzo avanzava spedito, ma ogni tanto si voltava, con sguardo di affettuosa sollecitudine in direzione del suo maestro per assicurarsi che stesse al passo. Il vecchio, però, procedeva veloce, rivelando insospettate doti di agilità nonostante la voluminosa mole che si portava dietro.
Amenemhat aveva quattordici anni; non molto alto, ma agile e snello. Il portamento era elegante: di nobile stirpe, si sarebbe detto, e il volto era di una bellezza insolita in terra d’Egitto: delicata e quasi femminea. La pelle era chiara, là dove il sole non l’aveva scurita e gli occhi erano di un indefinibile verde. Le orecchie a conchiglia, il mento arrotondato e il naso affilato, conferivano al suo volto, nel loro insieme, una vaga somiglianza con i profili tracciati in certe anfore di provenienza mitanne.
Ma nessuna di quelle caratteristiche lo rendeva diverso dagli altri ragazzi quanto la sua capigliatura lunga, folta e di un biondo fiammeggiante.
Amenemhat era un trovatello, sicuramente straniero, abbandonato tra le colonne del tempio del faraone Amenemhat III, in onore del quale gli era stato dato il nome che portava: un nome reale per un ragazzo speciale.
Accadeva spesso che trovatelli rinvenuti nelle corti dei Templi vi fossero allevati come servi o vi conseguissero i gradi inferiori di sacerdozio. Lo scriba reale SetepenRa lo aveva trovato lui personalmente, durante una cerimonia di commemorazione in onore del celebre Faraone della XIII Dinastia e lo aveva portato con sé al tempio di Thot, dove lo aveva affidato alle cure delle donne. Qui il bimbo era stato allevato e qui stava conducendo con strabilianti profitti gli studi di scriba. Il vecchio sacerdote si era sinceramente affezionato al ragazzo e pensava seriamente di adottarlo come figlio e di farsi succedere nella professione.
Quella dello scriba era la professione più ambita dalla popolazione dell’Antico Egitto. I compiti erano dei più svariati: verificare la posizione dei confini dei campi dopo le inondazioni, annotare i risultati dei raccolti per calcolarne le imposte, redigere atti giudiziari e notarili e occuparsi di tante altre cose ancora.
Benché come altre professioni anche quella dello scriba venisse tramandata da padre in figlio, chiunque, avendone le capacità necessarie, poteva diventare scriba.
Alla “Casa della Vita”, le scuole dei templi di Thot, dove si conseguiva un ciclo di studi di non meno di dieci anni, erano in molti quelli che andavano a bussare, ma soli in pochi riuscivano a farsi ammettere: la selezione e ferrea, ma meritoria. Il lavoro successivo, poi, era molto severo e, non raramente, accompagnato da punizioni corporali.
Durante il periodo di studio gli allievi dovevano copiare e ricopiare frasi, sentenze e calcoli, utilizzando frammenti di legno o di ceramica: gli ostraka, come li ribattezzeranno più tardi i Greci. Il papiro, materiale fragile e prezioso, ma anche assai costoso, che gli egizi chiamavano ouadj, ossia vigore, veniva usato solo al termine dell’apprendistato.
Lasciata l’ultima saletta, il gruppo raggiunse il cuore del Santuario, la parte più intima, dov’era custodita l’effigie del Dio, luogo inviolabile e precluso ai più.
Appena, però, lo scriba reale ebbe aperto la porta di quella stanza recondita e sacra, il giovane Ankheren frenò d’istinto la propria corsa, evitando di guardare all’interno, il Naos, il Tabernacolo che custodiva l’effigie di Ammon.
Si intravedeva appena, nascosta in una fitta selva di veli e in una penombra sapientemente rischiarata dal fuoco di un minuscolo tripode.
“Presto. - lo sollecitò lo scriba reale – Non indugiare, ragazzo.”
“Ma… io non posso mettere piede in questo posto sacro… Mi pare già di sentire Kebhesnuf affilare i suoi artigli di Sacro Sparviero e Anubi rizzare le sue orecchie di Sciacallo Divino…”
“Anubi e Khebesnuf sono amici dei Giusti. – lo rassicurò lo scriba – Seguici senza timori.”
“Lo sapranno, Anubi e Khebesnuf – il figlio di Mursil l’Ittita non sembrava troppo convinto – che noi non abbiamo intenzione di profanare questo luogo sacro? Lo sapranno, eh?…”
“Abbi fede, ragazzo. – lo rincuorò SetepenRa – Gli Immortali conoscono bene il cuore degli uomini. Non temere.”
Vinte, non senza qualche riserva, le ultime reticenze, il ragazzo seguì gli altri e varcò la soglia di quel posto proibito.
Passando accanto al tabernacolo lo scriba reale staccò dal Fuoco Sacro una fascina in fiamme e con quella fece luce; la fiamma illuminò la parete in fondo al vestibolo, quasi interamente occupata da una grande pittura muraria che mostrava il Faraone nell’atto di offrire doni ad alcune Divinità.
Per arrivarci dovettero attraversare un’infilata di colonne di grande imponenza.
Amenemhat si fermò ai piedi della terza colonna dell’ultima fila: il “Papiro Vivente”.
Quella colonna, mimetizzato da una delle decorazioni di cui il fusto era interamente coperto, celava uno dei segreti del Tempio: un’apertura da cui partiva un passaggio che si aprì non appena il vecchio scriba ebbe toccato una levetta.
L’apertura mostrò l’esistenza di un vano.
Attraversarono quel passaggio e appena dentro, lo scriba si richiuse accuratamente la porticina alle spalle; staccò una torcia attaccata ad un anello infisso nella parete e l’accese con il fuoco della fascina che aveva in mano. Immediatamente dopo una bella fiammata rischiarò l’ambiente.
Era umido, stretto ed angusto ed era l’accesso ad un cunicolo che portava in basso nelle fondamenta del Tempio. Da qui partiva un tratto lungo e tortuoso che parve interminabile: stretto, buio e impraticabile, sprofondava per metri sotto terra.
Ostacolati da pietre sporgenti dalle volte e dalle pareti, inciampando contro i sassi del pavimento terroso, il gruppo avanzava a fatica.
Mano a mano che procedevano, nel più assoluto silenzio e come storditi da quell’aria fetida, malsana e assai vicina al tanfo, pareva loro di avvertire un disagio sempre più simile all’inquietudine.
La principessa Nefer inciampò in una sporgenza, Xanto la sorresse ed Ankheren, alle loro spalle, non riuscì a trattenere un’imprecazione.
“Siamo vicini all’uscita.” li rincuorò il giovane Amenemhat, che mostrava di conoscere bene quel passaggio.
“.. e lontano da ogni pericolo. – aggiunse lo scriba – Pochi conoscono questo passaggio. Fu fatto costruire Amenemone, Direttore dei Lavori Regi del Faraone Ramseth, - spiegò – affinché il Ka del Faraone potesse liberamente lasciare la sua dimora eterna e andare a cacciare da solo i leoni fra queste montagne.”
Appena fuori, all’aria aperta,infatti, si trovarono in mezzo alle rocce e con un sole che picchiava così forte da frantumarle: al confronto dell’asfissiante calura che avevano appena lasciato, quell’aria rovente parve dolce come un’arietta di oasi verdeggiante.
“Uhhh! – esclamò Xanto – Finalmente all’aria aperta.”
“Qui le nostre strade si dividono. – il vecchio prete riprese la parola – Amenemhat, però, verrà con voi.”
La valle, davanti a loro si estendeva assolata e senza un filo d’ombra; tutto era giallo e sbiadito. L’orizzonte era occupato da fosche colline e monti arroventati; alle spalle si apriva la gola attraverso cui si accedeva alla “Sede della Verità”, che i posteri chiameranno “Valle dei Re” e ad oriente spaziava, a perdita d’occhio, la distesa del deserto.
Faceva caldo: Horo, laggiù, non era amico né alleato dell’uomo.
“Tre giorni sono lunghi da passare se si hanno nemici che calpestano la tua ombra e sei un fuggiasco.” esordì Osor, il sacerdote di Bes, che per tutto il percorso non aveva fatto sentire la sua voce.
“Cercheremo un rifugio dove aspettare che il battello con il carico per il cantiere del nuovo palazzo del Faraone a Pi-Ramesse sia pronto a partire.” spiegò Amenemhat.
“Dove andremo?” chiese il principe Thotmosis.
“Due ore di cammino ci porteranno all’oasi di Hibis.” rispose l’allievo di Thot.
L’oasi di Hibis conosciuta oggi col nome di Kharga, lussureggiava di palme da datteri, frutteti e vigneti.
Il gruppo si incamminò lungo una pista poco frequentata, prima di vederla comparire all’orizzonte simile ad un miraggio.
Un gruppo di cicogne si alzò in volo, davanti a loro, si allineò, l’una in coda all’altra, poi puntò in direzione della necropoli.
“Ecco i Ba dei defunti. - esclamò Thotmosis seguendo il loro volo; Xanto si girò a guardarlo – Sono le anime dei defunti che aspettano i loro Ka di ritorno dal Giudizio di Osiride.” spiegò.
“… dopo un viaggio pieno di insidie e pericoli attraverso la Duat.” interloquì la principessa Nefer.
“Duat?” domandò ancora il principe troiano.
“La Terra dell’Aldilà. – sorrise la principessa – Temo per il mio Ka, quando giungerà per me il tempo stabilito dagli Dei. Temo che possa perdersi nei Labirinti e negli Abissi della Duat e…- s’interruppe, come colpita da un timore – E se non dovessi ricordare le Sacre Formule necessarie a tener lontano pericoli e maledizioni?”
“Non temere, piccola Figlia del Cielo.- esclamò alle sue spalle Osor, il misterioso sacerdote di Bes il Misterioso, mettendole una mano sulla spalla in un gesto protettivo – Io sarò al tuo fianco per guidare i tuoi passi e tener lontano i pericoli.”
“E come farai?” sorrise lei.
Osor rispose con un altro sorriso, enigmatico e sfingeo e con lui sorrisero gli splendidi occhi dall’indefinibile colore: una caratteristica che lo rendeva unico in mezzo alla sua gente, quegli occhi dal colore così simile alla quarzite.
“Proteggerai anche i miei sogni, Osor, amico di Bes? – riprese la ragazza- Quando ero bambina mi addormentavo con i principi e le principesse delle favole che mi raccontava la mia cara nutrice. Sognavo di un principe del Popolo di Mare che venisse fino a corte per rapirmi e condurmi con sé.”
“Io tornerò, un giorno, per rapirti, principessa Nefer. – proruppe Xanto e Nefer avvampò – Sognavo anch’io da bambino, di salire su Argo la Veloce, assieme a Giasone e i suoi compagni.”
“Gli Argonauti!” esclamò Amenemhat.
“Chi sono costoro?” domandò Thotmosis.
“Guerrieri forti e coraggiosi. – spiegò l’allievo di Thot – che si imbarcarono sulla nave Argo per raggiungere la terra di Colchide alla conquista del Vello d’Oro.”
“Il Vello d’Oro?” fece Thotmosis.
“Il Vello di un Ariete Sacro sotto la cui protezione viveva quel popolo…” spiegò ancora l’allievo di Thot, ma Xanto, con nella voce un rancore represso, lo interruppe:
“Molti fra i discendenti di quei guerrieri hanno causato la rovina della mia città – proruppe – Io non ho più sognato di salire su quella nave, ma solo di salvare da qualche mostruosa creatura una dolce e bella fanciulla come mia zia Esione, strappata da Eracle al mostro cui un oracolo l’aveva destinata.”
“OH!” fu il commento di Nefer; Xanto riprese.
“Le Moire, invece, hanno tessuto per il principe Xanto un destino poco glorioso.”
“Noi tutti, insieme, sconfiggeremo le tue cattive Moire.” lo consolò Ankheren, figlio di Mursil l’Ittita, su cui il fascino dell’eloquenza del principe troiano sembrava aver fatto presa; d’altra parte, ascoltavano tutti con molto interesse quelle storie di terre lontane.
Sulle loro teste, intanto, il sole picchiava implacabile.
Si fermarono sulla sponda informe di un wady asciutto all’ombra di una palma secolare che affondava le radici a chissà quale profondità per poter vivere in un posto così arido.
Nefer sedette per terra e si addossò al grosso fusto e Xanto fece altrettanto; Ankheren, in piedi, indicò brevi e profonde incisioni tracciate sulla corteccia.
“Sekhmet viene qui ad affilare i suoi artigli.” Esclamò.
“Sekhmet?” domandò Xanto.
“Sekhmet la Combattente. – spiegò il ragazzo – La sposa di Ptha, che in sembianze di divina leonessa punisce gli uomini quando si rendono empi e cattivi… Guarda quelle orme… – Ankheren indicò inequivocabili segni sulla sabbia - … quelle ombre vicino a quei cespugli.”
Xanto guardò nella direzione indicata; anche Nefer si voltò a guardare.
“Sono orme di leone. Mi pare.” disse il troiano.
“Leopardo del deserto. – rettificò l’allievo di Ptha – Un leopardo si è spinto fin qui sulle orme di qualche gazzella.”
“Poverina!” esclamò la ragazza.
“Destino del leone è cacciare - interloquì nuovamente il carismatico Osor - e quello della gazzella è di essere cacciata. Il destino di ognuno… - s’interruppe – Silenzio. Ascoltate.”
Tacquero tutti.
“Che cosa c’è?” domandò Xanto.
“Qualcuno ci sta spiando.”
”Spiando? Non mi pare ci sia altra gente, qui, oltre a noi.”
Un grido trionfante, però, proveniente da dietro una roccia, impedì la replica del giovane sacerdote di Bes: la figura di Enen era balzata da dietro un masso gridando:
“Siete circondati. Non avete possibilità di scampo.”
Una dozzina e più di soldati sbucarono da ogni parte, armati di arco e frecce; al collo portavano il pettorale con il contrassegno della Squadra di Vigilanza.
“Il messaggio di mia madre. – pensò sottovoce la principessa Nefer – Lei mi avvertiva, in sogno, di stare in guardia dai tranelli del figlio di Teshnut!”
“L’allievo, qualche volta, è più accorto del suo maestro! – urlò ancora Enen – Il maestro SetepenRa non è il solo a conoscere il segreto nascosto all’interno della colonna del Papiro Vivente.”
“Anubi rizzi le sue orecchie di Sciacallo Sacro! – Amenemhat lo fronteggiò senza far nulla per nascondere rammarico e disprezzo - Quello che è stato un segreto ben custodito per anni non è più un segreto, dunque?”
“Non dartene pena, sciocco servo del tuo padrone. Questo, è il segreto della lavandaia che affida le chiacchiere al vento come sciorina al sole le sue lenzuola. Ah.ah.ah... – rise, poi aggiunse, in tono perfidamente serio – Uno schiavo fuggiasco di un ospite del Faraone è come uno schiavo fuggiasco del Faraone.”
Ed Ankheren, con lo stesso tono:
“… e un alunno negligente e stupido che riceve i rimbrotti del suo superiore è come un asino punto da un tafano, Enen, figlio di Teshut.”
Il figlio di Teshut fece qualche passo avanti, minaccioso e collerico; il figlio di Mursil lo imitò.
Parevano due torelli pronti a misurarsi.
Alto e atletico, la figura salda come marmo brunito, l’uno, quanto piccolo e misero di muscolatura, l’altro.
La principessa Nefer si intromise fra loro.
“Il principe Xanto non è uno schiavo.” insorse.
Enen la interruppe
“Taci, ragazza. Nessuno ti ha dato la parola.” disse.
“Sciocco presuntuoso.- esclamò Ankheren – Se tu sapessi a chi stai indirizzando la tua stolta alterigia ti taglieresti la lingua da solo.”
Ma il principe troiano, che fino a quel momento aveva seguito in silenzio il battibecco fra i due, si erse in tutta la possanza fisica.
“Un principe guerriero non si consegna ad uno studente. - lo sfidò – Vieni a misurare il tuo valore con me, prima di parlare di resa e di consegna.”
“Guerriero! Ah.ah.ah… -lo schernì l’altro – Un guerriero senza armi è come un toro senza corna.” continuò a ridere, trascinandosi dietro la risata dei soldati.
“Ettore, il mio compianto fratello, scacciò con un bastone un’orda di soldati achei che avevano violato una tregua. – proferì – Un bastone diventa un’arma, se impugnata con furore.”
“Il grande Campione di Troia? – ridacchiò un soldato alle spalle di Enen – Non ha fatto una brutta fine per mano di un guerriero di nome Achille?… Così ha raccontato re Menelao.”
”E’ andata proprio così. – lo appoggiò Enen – E tu faresti bene a consegnarti, schiavo, se non vuoi fare la sua fine, trascinato per i piedi ad un carro come un toro legato per le corna al carro del cacciatore. Ah.ah.ah…” e rise nuovamente. Con sprezzo.
Il volto di Xanto si infiammò d’ira repressa; il dolore gli dilatò le pupille ed incupì lo sguardo. Armato di quello e di un cieco furore, il ragazzo fece un passo in avanti, piegò il ginocchio e sollevò il braccio sinistro che impugnava il bastone. Fece volteggiare “l’arma” sul capo per due o tre volte, poi la scagliò in direzione dell’avversario come fosse un giavellotto.
Il bastone fendette l’aria con un sibilo secco e prolungato; intorno ad Enen si fece il vuoto. Il figlio di Teshut tentò di schivare il colpo buttandosi di lato, ma la punta del bastone lo colpì al braccio e gli strappò un urlo di dolore e di rabbia.
Immediatamente dopo, un nugolo di frecce partì in direzione di Xanto e degli amici che cercarono riparo dietro massi e sporgenze.
“Il figlio di Teshut non sa solamente scrivere, - urlò Enen, alzandosi e strappando l’arco ad un fante – ma anche guerreggiare.” aggiunse lanciando la sua freccia.
Partì un secondo lancio di frecce ed un improvviso, tremendo dolore colpì Nefer al petto.
La ragazza si lasciò sfuggire appena un lamento, poi premette la mano sul petto intorno alla punta di una freccia conficcata nella carne. Girò il capo, prima a destra, poi a sinistra, ma nessuno pareva essersi accorto della sua ferita.
“Xanto… Osor…” sussurrò.
A fatica si mosse; sedette contro la sporgenza rocciosa e lentamente si avviò lungo quel percorso che le era ormai noto ed attraverso cui andava incontro al suo Ka… ad Isabella. Trepidante e con dolce spossatezza,chiuse gli occhi e la chiamò:
“I…Isabella… Isabella, dove sei… por…gi lo sgua..rdo verso Nefer….”