La Fossa

La  Fossa

 

 

Un nuovo un ruggito riempì l’aria, potente e poderoso più che prima: un enorme leone africano attraversò trotterellando l’arena, sbucando di tra gli alberi di uno dei boschetti. Sugli spalti, intanto, una pioggia di palline stava investendo la folla; ogni pallina recava un numero abbinato a un dono: vesti, vasi, cesti di frutta, la cui conquista stava provocando gran confusione.

Dal  Pulvinar, Cesare seguiva la rissa divertito, puntando qua e là il monocolo; la sua attenzione, però, tornò all’arena e al cancello del terzo arco dell’ Oppidum dove un giovane stava ascoltando gli ultimi consigli del suo lanista.

Era molto giovane, tredici anni, forse meno. Quello doveva essere il suo battesimo dell’arena e i suggerimenti di Crescens, il suo lanista, potevano salvargli la vita. Egli li ascoltava attento, facendo ripetuti cenni di assenso col capo e alla fine si staccò dal cancello e andò incontro al leone, fermo nell’arena. Alto e slanciato, i capelli lunghi e ricci, arruffati come serpentelli, sembrava un fanciullo, la qual cosa  parve eccitare maggiormente la folla che prese ad

ondeggiare, agitando braccia e teste.

Il leone emise un ruggito, tale da far rabbrividire gli spettatori più vicini alla cancellata di protezione. Gli animi si accesero.

“Coraggio! Afferra per la coda quel gattone rosso e peloso.” Urlavano dagli spalti.

Il  ragazzo stava immobile al suo posto, come pietrificato.

“Hai paura?… Sei tu, quello con il pugnale… non quel povero gattone. Ah,ah,ah.. – rideva la folla, con la proterva incoscienza di chi agisce al riparo dal pericolo – Sveglia quel gattone in letargo!”

Anche il leone era sempre fermo al suo posto e continuava a ruggire, ma accompagnava i ruggiti con lunghi sbadigli.

Il ragazzo si mosse, cercando di attirarne l’attenzione, ma la belva pareva quasi ignorarne la presenza e continuava a sbadigliare e lisciarsi le zampe con la lunga ruvida lingua rosea.

“Ah.ah! – sghignazzava – Chi ha mandato giù quel poppante?”

“Sentitelo come ruggisce… sembra lui il leone! Ah,ah,ah…”

Qualcuno cominciò a lanciare oggetti di sotto.

Un sasso colpì il leone che sollevò l’enorme testa e fiutò l’aria: si era finalmente accorto della presenza del giovane. Tornò a spalancare la bocca, ma non per sbadigliare. Fauci e denti aguzzi, affilati e lunghi oltre ogni misura, un corpo che la natura gli aveva fornito al solo fine predatorio, la belva scattò in avanti e atterrò il ragazzo; il pugnale, abbandonato al suolo, lanciava bagliori.

Un roco respiro, che nessuno poteva udire, si alzò dalla fossa; grida di disappunto si levarono dagli spalti: non per la sorte del ragazzo, ma per la brevità del combattimento.

Qualcuno, però, rifiutò quell’epilogo: Valentinus, il grande gladiatore. Si staccò dai cancelli e piombò nell’arena sottovento e alle spalle del leone; pochi colpi bene assestati e gli sottrasse  lla troppo facile preda.

“Valentinus! Valentinus!” urlava la folla andata in visibilio.

Valentinus si chinò sul  ragazzo, ferito gravemente.

Anche Marco Valerio dirottò su di lui l’attenzione: la sorte di Lucilla era legata all’incolumità di quel gladiatore.

“Un toro per Valentinus!” continuava la massa urlante.

Crescens, il lanista dell’atleta, gongolava e la folla fu accontentata e la grata di ferro della settima porta dell’oppidum si sollevò lentamente; nel vano comparve la sagoma scura di un toro, intanto che alcuni inservienti portavano via il ragazzo: per quel giorno la morte lo aveva ignorato.

Nero come    la pece, forte e imponente,       il toro si staccò dalla

inferriata, trotterellando, agile e minaccioso. Si fermò, fatti pochi passi, sbuffando e scalpitando.  Apparteneva a una razza diversa da quelle che si vedevano di solito negli allevamenti della provincia: una montagna di muscoli guizzanti e nervosi sotto un manto di lucido pelo nero. Aveva unghioni color ardesia, sincipite prominente e lunghe corna, appuntite e rovesciate verso il basso: corna viste solo sul capo del dio egiziano Hapy, nel Tempio di Serapide, in Campo Marzio.  La coda flagellava l’aria e le narici la fiutavano. Avanzò ancora di qualche passo. Si fermò nuovamente, scuotendo l’enorme testa e come accecato dal riverbero che saliva dall’arena. Sollevò il muso; le froge fumavano.

Alto, bello, le proporzioni fisiche straordinarie, la pelle dorata e scurita per esposizione al sole, l’aspetto quasi selvaggio, Valentinus si mosse, concentrando su di sé ogni sguardo.

La lunga, singolare capigliatura bionda raccolta in treccine e trattenuta da un cordino di pelle, l’espressione ostinata del volto dai tratti energici e un po’ schiacciati, gli occhi chiari e glaciali, le sopracciglia congiunte, gli conferivano un aspetto terribile.

Lo sguardo scintillava nel giorno che avanzava veloce.

Stagliato contro un cielo terso e accecante, la figura salda e composta, pareva quasi trasfigurarsi, simile ad un semidio.

Al collo portava un torqes d’oro fiammante, un collare di metallo ritorto e senza chiusura, sottile alle estremità, che girava a spirale intorno al collo. Una larga striscia di pelle ornata di placche dorate gli fasciava il poderoso torace; schinieri in bronzo con decorazioni figurate, gli proteggevano le gambe e una striscia di cuoio intorno al braccio destra, costituivano il suo abbigliamento.

La coda del toro continuava a flagellare l’aria e le narici a fiutarla: aveva   avvertito      la presenza del giovane e gli occhi scrutavano

d’intorno alla sua ricerca.

Il galate agitò un braccio per richiamare la sua attenzione.

L’animale riprese a trotterellare, ma si  fermò ancora e sollevò la testa e il muso, poi un tuono partì da quella montagna  scura, come da una gola cavernosa e riverberò nell’arena.

Il toro caricò.

Valentinus lo attese fermo al suo posto; si scansò solo all’ultimo

secondo, con un formidabile colpo di reni e l’animale gli passò accanto come una valanga.

Nell’impeto della corsa, il toro proseguì per qualche metro, poi si fermò, si girò e si preparò a una seconda carica; il terreno rimbombava sotto lo zoccolo sinistro che scalpitava furioso.

Nell’arena e sugli spalti non volava una mosca.

Valentinus cacciò un urlo spaventoso, che disorientò il toro e si trascinò dietro quello della folla eccitata.

La folla amava il suo idolo. La folla riconosceva il suo valore, il suo coraggio e anche qualcosa di incondivisibile, che lo rendeva diverso da loro.  La folla amava e osannava  il suo idolo, perché la sua figura, da sola, riempiva quella fossa in cui  lo sapeva destinato a restare.  Non quel giorno, forse, ma di sicuro un giorno.

Il toro tornò a caricare.

Valentinus questa volta non lo attese. Gli andò incontro con l’arma tesa in avanti, più corta delle lunghissime corna dell’animale  e con un colpo magistrale gliela conficcò proprio nel mezzo. Quando si girò, però, due vistose cicatrici gli segnavano il petto, là dove s’erano conficcate le corna del toro.

Marco Valerio, nel palco, ebbe un sussulto di contrarietà.

Il toro piegò le zampe anteriori, abbassò il capo e il muso toccò terra; l’enorme montagna pelosa ebbe un tremito, poi si accasciò.

Il galate si chinò, estrasse l’arma e si voltò a salutare la folla poi si avviò a passo lento verso le cancellate dell’ oppidum.

Nell’arena intanto si preparava la scenografia per un nuovo gioco…

(continua)

brano tratto dal libro "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"  - di Maria PACE

nelle migliori librerie o presso la EDITRICE MONTECOVELLO

si trova anche in forma di e.book