Cap. X - seconda parte

Cap.  X  -  seconda parte


Di colpo sentì il cuore balzargli in petto: seduta al centro della panca assieme a due dame c'era "Lei", la Morte.

"Ancora lei! … Ma quando finirà di perseguitarmi?" proruppe a bassa voce, ma non abbastanza da non farsi sentire dalla donna che si girò a guardarlo con un sorriso spudoratamente invitante:
“Chi è ti perseguita, bel puteo… Sei bianco e roseo come una bella putea…” cominciò, per sua fortuna, l’arrivo di Nsitana lo tolse dall’imbarazzo:  
"Madamigella Mavera vuole che le legga la mano. Vuoi accompagnarmi da lei? - disse  - Ci sta aspettando in una saletta privata… ma che cos’hai? Sei pallido come un cencio sbattuto… "
Il ragazzo non rispose; tornò a guardare verso la panca, ma Comare Secca  era scomparsa.


 

                                        

Trovarono Bianca Mavera in attesa davanti ad una finestra, insieme a una ragazzina di dodici o tredici anni che le reggeva uno specchio; al loro ingresso si voltò.
"Siedi." disse a Nsitana, poi guardò Raniero, e lo sguardo di lui, penetrante e profondo, le spense la parola sulle labbra mentre un velo di lieve rossore aggiungeva grazia alla grazia.
Conscio d'essere la causa di quel turbamento, Raniero ebbe un sorriso ed un lieve inchino, ma anche lui era turbato.
"Ti farò un regalo se vorrai leggermi la mano." esordì Bianca Mavera, rivolta alla zingara.
"Lo farò anche senza lusinghe di regalo." rispose Nsitana, prendendo tra le sue la mano della ragazza.
"La linea della vita - cominciò - è lunga e robusta, significa, mia signora, che avrete una vita lunga, ma vedo due interruzioni, segno che per due volte la minaccia di morte incomberà sul vostro capo... Un pericolo lo avete già corso, mia signora e da poco."
"E' così! - la ragazza si girò verso l'ancella - E' stato quando Bucintoro mi ha sbalzata di sella, due mesi fa."
"E' vero, madamigella." rispose quella.
"Non vedi altro sulla mia mano?"
Bianca tornò alla gitana.
"La fortuna...Perdonate, madamigella, ma non vedo molta fortuna. Vedo invece tanti desideri inappagati...Ma forse mi sbaglio. Però la linea del cuore è assai bella, signora. Molti gentiluomini vi ameranno, ma voi darete il cuore ad una sola persona, ma...ma lui non vi amerà. Non vedo il suo volto... vedo invece una rosa che regge la quercia. Siete voi quella rosa e la quercia è lui e voi lo salverete dalla morte."
"Oh!" fu il commento della giovane.
"Sarà questo il secondo pericolo che incombe sulla vostra persona...Questo è quanto vedono i miei occhi, signora."
Bianca sorrise, prese un oggetto luccicante da una scatolina e lo fece sparire nel corsetto della zingara.
"Accompagnali, Lucia.- disse all'ancella e quella li accompagnò fino all'uscio  - Non è bellissimo quel giovane zingaro?" aggiunse poi, quasi in un sussurro, ma nn abbastanza da non farsi udire da Raniero che ebbe un sorriso.
"E' bellissimo!" rispose la piccola.

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 Stretti vicoli ed arcate gli si aprirono davanti; accanto ad una di queste si fermò e agilmente si arrampicò fino al crostone dove restò immobile; pochi secondi dopo il suo inseguitore gli passò sotto, nella fioca luce lunare.

"Ma quello lo conosco: era alla festa di Mavera.- lo vide passare oltre - Ti ho giocato, amico!" disse sottovoce facendo l'atto di scendere giù dal cornicione, ma udì ancora rumori di passi e tornò a nascondersi.
"Rames?...Ancora lui!" mormorò e quando anche  lo zingaro non fu che un'ombra nelle ombre, si calò  giù e rifece il percorso già fatto. Fatti pochi passi, però, udì avvicinarsi nuovi passi.
"Per mille diavoli!  Mi sono nuovamente addosso."  imprecò cominciando a correre, poi riudì quel rumore di acque smosse e vide una barca da cui provenne una voce che lo invitò a saltare a bordo; seguì un attimo di titubanza, poi il ragazzo saltò nella gondola, che si allontanò velocemente e, alla donna velata che lo aveva accolto domandò:
"Chi siete? - quella sollevò il velo e lui trasecolò - Madamigella Mavera!"

Felice dell'inaspettato aiuto, Raniero trasse un sospiro di sollievo, ma non se ne sarebbe rallegrato troppo, se avesse potuto seguire i passi dello zingaro.
                   
Rames, attraversato con passo spedito la calla sporca e polverosa, si fermò accanto ad una bettola malamente illuminata da una lampada appesa al muro; lo zingaro batté tre volte contro la porta, ad intervalli regolari, prima che questa si aprisse e nel vano comparisse un uomo che si scostò per farlo entrare e che lanciò uno sguardo di fuori prima di richiudersi la porta alle spalle.
Basso, tarchiato, una evidente propensione per il cibo,  alla luce bassa di un ambiente invaso dal fumo, l’uomo mostrò una faccia quasi interamente coperta da una peluria rossiccia e due fessure strette e lunghe, che trattenevano due pupille grigiastre ed apprensive. Una manaccia grassoccia e pelosa reggeva un lume e l'altra lisciava il grembiule dall'indefinibile colore.
Lo zingaro si liberò del mantello e lo posò su una panca.
"Meglio andare di sopra." suggerì l'oste.
Lo zingaro si guardò intorno, come se le parole dell'altro fossero dettate dalla presenza di estranei, ma nella locanda non c'era nessuno.
Lo stanzone, però, scarsamente illuminato da un lumignolo alla parete e dalla candela che l'oste teneva in mano, pareva il posto più adatto per un agguato e forse, per un inconscio timore, lo zingaro prima di seguire l'oste si guardò intorno con circospezione.
L'oste aprì una porta nella parete di fondo e tenendo il lume sollevato sul capo, per consentire all'altro di vedere dove mettere i piedi, cominciò a scendere lungo una scala di pietra dai gradini rosi dall'umidità.
Undici, ne contò Rames a fil di voce, prima di sentire la terra piana sotto i piedi.
"Solo un uomo come te è capace di aggirarsi per Venezia di notte con tutto l'oro che porti addosso  senza lasciarne le penne. - esordì l'oste con un sorriso e senza girarsi, poi continuò - Cosa ci fai a Venezia?"
"Tutta Venezia conosce di fama Rames e i suoi pugnali. Solo tu non sai nulla. E fai bene a badare ai fatti tuoi." rispose con sarcasmo il gitano.
L'altro sogghignò.
"Ma posso sapere come hai fatto a scovarmi?" domandò.
"Sei stato un bravo mercante di cavalli e forse ora sei un bravo oste; dovessi fare il segugio, però, te la caveresti maluccio. Ma lasciamo perdere le chiacchiere. – aggiunse cambiando tono di voce - Fra due ore mi aspetta una barca e devo essere al posto convenuto."
"Dimmi perchè sei qui. Ti ascolto." insistette l’’altro.
"Per la verità -cominciò lo zingaro - sono venuto qui per un motivo, ma  per strada ne ho trovato un altro."
"Parla." lo  sollecitò l’altro in tono che non nascondeva una certa curiosità.
"Voglio denunciare un complotto contro la Repubblica."
Concisa e senza preamboli, la risposta dell’oste, che trasecolò.
"Cheee?... Sei pazzo, zingaro. Tu sei pazzo!"
"Non sono pazzo, ascolta..." e lo zingaro raccontò di aver scoperto un complotto ai danni della Serenissima ad opera di due spie aggregatisi alla sua carovana e infine:
"... e tu dovrai scrivere una lettera che metteremo nella Bocca del Leone. Uhhh!...- lo zingaro si schiarì la gola - Io non so scrivere, ma tu sì."
"Tu sei pazzo! Io non ci penso nemmeno. Non voglio mettermi nei guai. Non si scherza con certe cose."
"Ti darò dell'oro... molto oro." lo tentò lo zingaro e Bortolo tentennò qualche attimo ancora, ma la prospettiva dell'oro lo fece capitolare:
"E va bene!" disse e andò a prendere l'occorrente per scrivere e  cominciò:
"Tra i gitani...."

"Domani il Consiglio dei Dieci si riunisce nel Tribunale della Quarantia Civile Antica." riferì Spaccamontagne appena rientrato da suo giro tra le bettole del porto.
"Senza dubbio si parlerà del Duca di Milano e di nuove condizioni di pace. - osservò Raniero - Hai fatto proprio un buon lavoro, amico mio. Dove hai appreso tutte queste notizie?"
"In una bettola dietro il Rialto. - rispose il giovane con un sorriso di compiaciuto orgoglio - Proprio ben frequentata, ah,ah,ah... Mi son detto: ecco il posto dove un buon bicchiere di vino riesce a sciogliere fin'anche una lingua legata."
"Bene! Prudenza, però, il Consiglio dei Dieci, a quanto ne so, ha una efficientissima rete di spie."
"Speravo ci fosse da menar le mani."
"L'abito che indossiamo attira già su di noi l'attenzione di tutta Venezia e noi dobbiamo cercare di passare inosservati."
"Già! Bestia che sono! – Spaccamontagne si battè il petto - Hai qualche piano?"
"Per ora staremo ad aspettare, ma voglio esporti fuori di qui il mio piano: se qualcuno sentisse, le nostre teste potrebbero rotolare giù per le scale di Palazzo Ducale."

Lasciarono Palazzo Mavera, ma senza allontanarsi dalla zona di Rialto e dalle sue botteghe; strade, ponti, calle, canali, erano tutti affollati, pareva che a Venezia vivessero tutti per strada: marinai e mercanti, donne e bambini, nobili e plebei, ricchi mendicanti.
Pochi, questi ultimi in verità, da quando un decreto dei Provveditori alla Sanità li aveva allontanati perché disturbavano con grida "sopra li ponti e le contrade per dimandare la limosina".
C'erano, per strada, anche molti nobili, eleganti e sfaccendati, a passeggio per Venezia con il proprio seguito e non erano pochi quelli che si attiravano addosso l’ironia degli altri a causa di un abbigliamento troppo ricercato e i modi affettati.
Ma fu quando due di questi cortei si trovarono l'uno di fronte all'altro, che ebbe luogo la scenetta più gustosa a cui i due amici dovettero assistere.
I due gruppi si fronteggiarono, compatti. Da una parte e dall'altra. Simili a quelle "formazioni" di clienti e liberti di tacitiana memoria e i due "capi" si fissarono e si studiarono in silenzio per lunghi attimi: l'uno, impettito e mingherlino, portava in testa sopra il copricapo una strana insegna, una specie di cresta in seta e velluto; anche l'altro, grosso e panciuto, portava sul capo la stessa insegna con gli stessi colori; a guardarli così da vicino, erano l'uno la satira dell'altro.
"Quella è la mia insegna." esordì il grosso, forte della propria mole.
"E' mia, invece." replicò lo smilzo.
"La vostra, messere, è una bugia ed io ve la ricaccerò in gola."
"L'ho appena acquistata da messer Vernano, - spiegò l'altro- Marmoraio, ritrattista e maestro di disegno, degno e valente. Ho pagato cinque ducati per questo disegno."
"Messer Vernano? A lui ho ordinato io pure quel disegno, messere e per primo. Per questo compete a me il suo uso."
"Competenza io vi riconosco, messere. - lo smilzo stava prudentemente battendo in ritirata, ma lo sguardo volpino brillava d'arguzia - Cinque ducati l'ho pagato e cinque ducati vi chiedo, più altri cinque per il sacrificio del distacco."
Senza indugio lo smilzo si staccò l'insegna dal capo e la tese all'altro; un servo la prese e la portò al destinatario.
Parevano tutti contenti e soddisfatti. I due gruppi si sciolsero e si separarono ed ognuno andò per la propria strada.

"Ecco qualcuno che sa trarre guadagno anche dalle sconfitte." rise Spaccamontagne, poi trattenne un'imprecazione nello scansare un mucchio di rifiuti in cui era andato ad inciampare: un problema quasi irrisolvibile, per la Serenissima, i rifiuti che ammorbavano l'aria e che venivano continuamente rimossi per timori di epidemie: quella di peste del 1423, che aveva decimato la città, era ancora tragicamente presente nei discorsi dei veneziani. 
Raggiunto uno dei numerosi fondachi della città, con forno, mulino e bagno pubblico e approdo con banchina per tenervi mercato, si fermarono e sedettero su un muretto.
"Un uomo ci segue." disse Spaccamontagne.
"Lo so! E' un pezzo che lo abbiamo alle costole..."
                 
Il misterioso segugio era stato messo alle costole dei due amici da qualcuno che Raniero e il compagno non avrebbero mai supposto: Alvise Mavera in persona.
In realtà si trattava di un semplice controllo esteso ai componenti dell'intera carovana: un consueto atto di polizia nei confronti di stranieri, affidato ad una efficientissima rete di informatori.
Faliero Zeno, detto Salai, ossia "il diavoletto", era uno di quegli informatori.
Vent'anni o poco più, fantasioso ed indisciplinato, esuberante ed avvenente, era una simpatica canaglia che tutti, uomini e donne, trovavano di piacevole compagnia: ottime qualità per carpire segreti  e pettegolezzi.
Gli Inquisitori lo avevano "arruolato" nell'esercito di spie e controspie e Mavera lo aveva messo alle costole dei due amici.
Verso sera, lasciato Spaccamontagne al suo giro di perlustrazione per le bettole del porto, Raniero raggiunse il ghetto ebraico, trascinandosi dietro il suo segugio nascosto nell'ombra.
Non esisteva illuminazione pubblica, salvo qualche lanterna appesa qua e là davanti a nicchie e cappelle sacre e ognuno si faceva luce da sé; anche Raniero aveva una lanterna, ma la teneva spenta.
Il lume di un "codegà", addetto all'illuminazione notturna delle zone più pericolose della città, lo investì.
"Sei della carovana degli zingari? - domandò l'uomo osservandolo attentamente alla luce della lampada, poi continuò. - Non ti occorre il mio lume?"
"No! Non mi occorre."
"Voi zingari sapete muovervi come gatti nella notte." disse ancora quello e si allontanò; Raniero restò immobile nel buio fin quando la fioca luce del codegà non fu scomparsa dietro l'angolo, poi mosse in direzione della bottega di messer Samuelo Marin, ma giunto davanti alla porta tirò avanti senza fermarsi, allo scopo di confondere il segugio. Gli parve di udire un rumore di acque smosse e scrutò nell'ombra, ma non vide nulla, tuttavia,  accelerò il passo, lasciandosi inghiottire dalle tenebre.