Cap. X La Serenissima


Per attraversare la laguna, la via più veloce e sicura era l'acqua, ma era anche la sola via per raggiungere Venezia, una città che sorgeva sull'acqua; le vie di comunicazione terrestri erano limitate di numero, dissestate e malsicure e non solo per il fenomeno assai diffuso del banditismo, ma anche per la presenza di milizie in guerra o mercenari allo sbando.
Raniero e Spaccamontagne, con la carovana degli zingari, entrarono in città su un barcone  messo a disposizione da Monsignore.
In realtà, entrare nella Repubblica dei Leoni non era cosa facile. I veneziani erano sempre all'erta e non solo nei confronti di nemici dichiarati, ma di tutti gli stranieri.
Venezia risplendeva, a quei tempi, di arte, ricchezza e potenza; possedeva capitali marittimi e terrestri, e la popolazione, assai numerosa,  era presa da una sola cura, quella di commerciare e navigare per il mondo. Botteghe e Scuole offrivano capolavori d'arte e musica; Piazze, Chiese e Palazzi, perfino gondole ed osterie, testimoniavano lo splendore della Serenissima.
Accolto dagli splendidi palazzi gotici, dagli alti campanili, dai mille canali, ponti e scalinate, Raniero avanzava in quello straordinario labirinto liquido, affascinato e come smarrito.
La grossa barca scivolava sul mare di velluto grigio cui i raggi del sole morente strappavano bagliori di forforescenza e si fermò, attraversato il Ponte di Rialto e l'ampio levatoio centrale, davanti ad un magnifico palazzo gotico come gotica era all'epoca quasi tutta la città: era Palazzo Mavera, residenza di Monsignore, una costruzione che già dall'esterno magnificava lo  splendore interno.
Monsignor Mavera fece fermare anche la gondola che aveva ospitato Marika e Nsitana, le bellezze gitane che avevano infiammato il suo cuore e che i quattro vogatori saraceni aiutarono toccare terra, poi scese anche lui.
La gondola era per un gentiluomo veneziano, come la carrozza per un nobile romano, napoletano o milanese, o come il cavallo per un cavaliere. In verità, il veneziano non aveva col cavallo quel che si dice un eccellente rapporto e non a caso il Castiglione definì nella sua opera letteraria: "alla veneziana", un cavalcare poco armonioso. A Venezia, ogni gentiluomo possedeva più gondole e, all'epoca dei fatti, in città se ne contavano più di diecimila esemplari, ma, ad una sola di esse, il gentiluomo veneziano era particolarmente "attaccato". La gondola di Mavera era assai bella, elegante e spaziosa, abbellita da discrete tendine di seta e confortata da cuscini e comodi lettini. Era una vera casetta galleggiante, che portava alla mente le belle barche di papiro che i nobili dell'antico Egitto usavano per le loro spensierate gite sul Nilo.
Il patrizio assegnò agli zingari come dimora,l'atrio, in cima allo scalone d'ingresso ed alcune stanze che davano sul cortile interno.
Dall'alto di un terrazzo, che dominava buona parte della zona attorno al Rialto, dove erano concentrati i mercati con le relative suddivisione di mestiere come pescherie, erberie o frutterie,  e Corporazioni di mestieri come la Stamperia o la Filanda, dove una straordinaria macchina mossa da energia idraulica a cui avrebbe volentieri dato una occhiata e che facilitava il lavoro, Raniero, il mattino dopo, osservava ogni cosa; immerso nelle sue osservazioni, non s'avvide di essere stato seguito, se non quando una voce non lo apostrofò alle spalle con accento duro.
"Marika è in collera con te, straniero. Perché'"

Era Rames, il lanciatore di coltelli.
"Perché dovrebbe esserlo? Io non le ho fatto nulla."

"Forse...Io non so.- replicò quello - A farle il tuo nome è come se le passasse davanti la Morte in persona...Chi sei, straniero?"
"Il tuo capo non mi ha fatto domande."
"Io invece sì! Voglio scoprire i tuoi segreti e sapere perché ti nascondi dietro un abito gitano."
Raniero non rispose, gli dette le spalle e fece l'atto di allontanarsi; l'altro ruggì ancora:
"...ma non sei un gitano, se lo fossi sapresti quanto pericoloso sia sfidare uno zingaro e il suo rancore."
"Rancore? - domandò Raniero senza fermarsi - Perché? Non ho fatto nulla contro di te."
"Non importa cosa  hai o non hai fatto, Marika non è più la stessa e la colpa è tua. E  pagherai per questo."
"Mi minacci? Pensi che io possa aver paura dei tuoi pugnali?"
"Faresti bene ad averne.- incalzò l'altro con feroce semplicità - Attento a te. Io posso inviarti contro la morte."
"La Morte?...- Raniero ebbe un sorriso. - Neppure immagini quale rapporto io abbia con la Morte, amico!"
"Non sono tuo amico, ma tuo nemico!"
"Tu sei pazzo."
"Siamo tutti pazzi, noi zingari. E siamo pericolosi. Lascia la carovana e con essa questa città."
"E quale motivo avrei per..." replicò il ragazzo fermando il passo e girandosi, ma il sangue gli si raggelò nelle vene nel vedere al fianco dello zingaro, nel mattino che andava schiarendo, la falce di Comare Secca luccicare sinistra.
"Non ho alcun conto da pagare ai tuoi coltelli, zingaro.- disse - E non è tempo di esigere nemmeno per Lei..." e tese un braccio in avanti; Rames guardò in quella direzione e Raniero lo vide rabbrividire come se un vento gelido lo avesse investito; scrollò la testa e dette ad entrambi le spalle per allontanarsi.

 


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Che i veneziani non avessero problemi di denaro, Raniero lo aveva capito appena messo piede in città, ma ne ebbe la certezza quella sera stessa alla festa in casa Mavera. Il palazzo grondava luci: candelabri e gioielli, gli uni ai soffitti e gli altri addosso a dame dagli abiti sfarzosi e dai capelli tinti con "acqua bionda."
In verità, erano numerosi i decreti con cui il Consiglio dei Dieci cercava di porre un freno agli eccessi ed alla ostentazione di ricchezza da parte di nobili e mercanti, tutti, però, violavano allegramente la legge pagando qualche multa. Esattamente come accadeva per gli eccessi nell'abbigliamento femminile, che facevano la fortuna di tessitori, sarti e gioiellieri, le cui botteghe erano diventate luoghi di ritrovi per gentiluomini e dame. Quelle più spregiudicate, naturalmente, poichè tutte le altre, come la maggioranza delle donne del quindicesimo secolo, anche la donna veneziana, proprio se di nobile lignaggio, veniva educata alle cure domestiche ed alle gioie familiari.
Anche la nipote di Alvise Mavera, Bianca, era venuta su con quei principii. Quella sera si festeggiavano i suoi quindici anni e uno di quei gioiellieri, l'ebreo Samuele Marin, era riuscito a farsi ricevere a palazzo per mostrare alla festeggiata alcuni pezzi delle sue collezioni e convincere il patrizio a qualche acquisto. Bianca era una ragazza bella e gentile e con uno sguardo nutrito di sogni e fantasie; il suo ingresso attirò su di lei ogni attenzione. Indossava una veste di broccato verde con maniche di seta bianca a sbuffo e aveva i capelli raccolti ed intrecciati con perline e nastri colorati; al suo fianco, lo zio Alvise appariva orgoglioso ed affettuoso.
La voce amabile, lo sguardo mansueto, il volto paffuto e giocondo,
facevano dimenticare essere lui uno degli arbitri di vita e di morte dei concittadini, Doge compreso. Passava per essere un uomo dai gusti raffinati e, sarti e gioiellieri, cercavano e temevano al contempo il suo giudizio, ma anche Samuelo Marin era considerato fine intenditore delle arti italiane restituite in tutto il loro splendore dopo la decadenza medioevale e i presenti erano entusiasti davanti al luccichio di quelle gemme.
"In fede mia e per quella che porto allo "Zuccone", neppure a Firenze ho visto una linea più pura." Una voce alle spalle  di madamigella Mavera si unì al coro di ammirazione.
Si voltarono tutti verso il nuovo arrivato, un vecchio signore dai modi garbati e semplici e dalle vesti sobrie e modeste e Mavera gli andò incontro.


"Messer Donatello. Quale onore per la mia casa. Benvenuto"
Era il grande scultore fiorentino, che aveva appena terminato quella meraviglia che è l'Altare di San Antonio in quel di Padova: un bassorilievo dalla straordinaria, commovente vitalità, a cui manca solo il colore per parere opera viva e davanti al quale artisti ed uomini comuni rimasero, e rimarranno sempre, stupiti e commossi. Il grande vecchio si fece avanti, con quella semplicità  e timidezza che lo avevano sempre accompagnato nella vita, per nulla insuperbito  dal proprio vasto ingegno. Gli batteva in petto un cuore grande e generoso, che gli faceva tenere, a disposizione di amici ed allievi, la cesta col denaro appesa alla porta della bottega, dove erano nate le sue opere: il Davide, il San Giorgio, nelle Madonne, il Profeta: lo "Zuccone", appunto, come i fiorentini avevano ribattezzato quella statua a cui egli era così affezionato da giurarci sopra come su una Bibbia.
 

Assai diversa la sua bottega a Firenze da quella di Messer Marin a Venezia: questa era diventata un "confessionale" per pettegolezzi,  tra l'acquisto di una collana e un bracciale.

"Oh che su cotale arte, messere non "mercaterà" come quell'asino cotto di un mercante genovese." esclamò Donatello.
"Genovese e per di più mercante, ah,ah,ah..." rise qualcuno alle sue spalle, un gentiluomo sulla trentina, alto, spalle larghe che andavano restringendosi fino ai fianchi. Gli zigomi forti, il naso aperto e pronunciato, la mascella volitiva, oltre che il mento marcato e solido, rivelavano in lui l'uomo di carattere e dalla facile intuizione, capace di cogliere le sfumature di chi gli stava intorno. La ricchezza delle vesti, di tessuto pregiato, ma senz'altro ornamento che una preziosa cintura che gli sosteneva la spada, insieme allo sguardo, che si posava su ogni cosa con distacco, rivelavano uno spirito libero e superiore.
"Venite avanti. - Mavera si fece cortesemente da parte per fargli posto - Venite avanti, principe Orsini."

Alberto Orsini, inviato del Papa  per eventuali negoziati di pace con il Duca di Milano, era appena giunto a Venezia.
"Dicevo - il messaggero apostolico riprese la parola - Dicevo che l'avarizia non è in accordo con l'arte. Ma dite, dite: quale questione è stata, con codesto mercante genovese?"
L'episodio del capolavoro distrutto per colpa dell'avarizia di un mercante, era noto a tutti, ma, forse, non era ancora giunto a Roma.
"Un certo Giannetto Frondisio - spiegò Mavera - si presentò al maestro per far modellare una testa d'adolescente in bronzo, ma al momento di pagare, disse che il compenso era eccessivo.- Donatello
sorrideva ed annuiva. - Portata la questione in giudizio, quell'avaro disse che a farsi i conti, in fondo... il compenso pattuito era eccessivo, ecco..." Mavera fece una pausa.
"E come procedette la questione?" incalzò Orsini.
"Che quell'asino -interloquì il vecchio maestro - cui gli occhi erano capaci di trarre piacere solo dal contemplare il suo oro,  rimase con quello soltanto in mano."
"Volete dire, maestro, - domandò Orsini - che  non gli avete consegnato l'opera?"
"Voglio dire che l'ho ridotta a pezzi. Ecco cosa voglio dire! Ah.Ah.Ah." se la ghignò il grande Maestro.
"Oh! Che gran peccato!"
"Non pensiamoci più, messeri e divertiamoci."
Il grande Donatello era così, geniale, generoso ed impulsivo.
"Divertiamoci. - Mavera  gli fece eco - Ho una sorpresa per i miei ospiti. Una straordinaria sorpresa."
Fatto un cenno, gli zingari entrarono.
C'era anche Raniero con loro, ma il ragazzo, si tenne in disparte, aspettando di essere   contattato da un uomo del Duca di Milano, che avrebbe dovuto passargli informazioni: quell'uomo era proprio il mercante ebreo Samuelo Marin.

Gli ebrei, che a Venezia molto spesso venivano accusati di prestiti ad usura e ricettazione, nonché di cospirazione nei confronti della Repubblica, godevano al contempo della protezione di alcuni fra i rappresentanti della nobiltà e della diplomazia.
L'enorme ricchezza che essi guadagnavano con i commerci, attirava su di loro invidie e disdicenze, ma assicurava anche una certa protezione ed estendeva su vasto raggio la loro influenza.
Molti nobili, infatti, indebitatisi con le  banche ebree, finivano per farsi corrompere e per lasciarsi andare in confidenze che costituivano poi, materiale di ricatto per i più intraprendenti e senza scrupoli: Samuelo Marin era uno di questi.
Mercante d'arte, astuto, ambizioso, servile per necessità ed intrigante per convenienza, conosceva molti dei segreti di Venezia ed era disposto a venderli al miglior offerente: il Duca di Milano era fra questi e Raniero era stato mandato a comprare alcuni di quei segreti.
Il loro segno di riconoscimento era piuttosto originale: Raniero doveva mostrarsi con indosso un mantello annodato esattamente come quello della statua di San Giorgio, un'opera così celebrata, da poterne agevolmente imitare il drappeggio del mantello ed il particolare nodo.

Samuelo, che scegliendo quel contrassegno aveva mostrato la sua grande passione per l'arte, non aveva pensato che avrebbe anche potuto attirare l'attenzione di altri.

Così fu.
L'attenzione generale, ma soprattutto quella di un gruppo di dame, fu catturata da quello zingaro dal fisico slanciato e dall’aitante giovinezza… Dame e gentiluomini, in verità.
Una di loro disse che quel "figliolo" assomigliava proprio tanto alla statua del grande maestro, da essere scambiata per essa.
In effetti, in piedi accanto ad una finestra, ma fremente nell'attesa, Raniero assomigliava davvero al fiero San Giorgio fermo sul piedistallo e pronto ad attaccare e sconfiggere il suo Drago.

Uno di quei gentiluomini, un giovane sui venticinque anni, bello e gentile, capelli biondi alla paggio, lunghi sul collo e folti sulla fronte, uno scintillio di incontenibile e contagiosa gaiezza nello sguardo, si staccò dal gruppo e si accostò a Raniero.
"Domani...Domani ti voglio sul Ponte della Paglia, ragazzo mio...Ti voglio sul Ponte della Paglia."
Sorpreso, Raniero si voltò.
"Non capisco, messere..."
L'altro tese una mano per scostargli una ciocca di capelli dalla fronte; la mano più bella, affusolata ed espressiva che Raniero avesse mai visto: mano di artista.
"Per la scena della caduta in acqua della Santa Reliquia di Cristo.- spiegò quello - Parole di Giangentile, nessun volto che non sia questo, mio giovane gitano, potrà esprimere la gioia sublime del frate che la ripescò nell'acqua."
Raniero continuava a non capire.
"Io non so nuotare."disse.
"Ah,ah,ah. - rise l'altro - Sei anche spiritoso."

Quel giovane era Gentile Bellini, pittore veneziano di fama, gentile di nome e di fatto, come le sue opere, dalle calle, dai ponti e dai canali affollati di gente.
"Il vincitore del Drago vincerà pure l'acqua."
Replicò il principe Orsini giunto alle loro spalle.
"Questo figliolo sembra davvero essere il modello di quella statua. Bisognerà chiederlo al maestro Donatello." gli fece eco una dama, agghindata come una giovenca destinata al sacrificio in una di quelle pitture mitologiche in voga presso le case patrizie.
Lo stesso Donatello pareva impressionato da quella somiglianza.
Preoccupato che tutto quel rumore attorno alla sua persona potesse recar danno alla sua missione, Raniero chiese di ritirarsi, col pretesto di preparare l'esibizione dei compagni.

L'atmosfera in sala, nel frattempo s'era fatta vivace: musiche, canti e la rappresentazione mitologica di un gruppo di paggetti e  ragazzine.
Si trattava,- e come poteva essere diversamente - del mito di Bacco che scopre il vino e lo fa conoscere agli uomini:  ninfe e fauni inghirlandati; a vestire invece i vizi del vecchio satiro Sileno, l'impareggiabile compagno di Bacco, era un veneziano travestito da turco, che si trascinava dietro per tutta la sala uno stuolo di Baccanti allegre e coperte di pelli di animali; il vino  scorreva dagli otri panciuti, come in una vera, antica festa Dionisiaca dei tempi di Atene.
"Vecchio Satiro di un Turco! - imprecò un patrizio chiaramente sbronzo, additando il vecchio Sileno - Non hai ancora puntato i rostri delle tue navi e già vuoi insidiare le nostre donne?"

Il "Turco" a cui erano dirette quelle invettive non era il povero Sileno, naturalmente, ma il sultano Maometto II, che il 29 maggio di quell'anno aveva espugnato Costantinopoli facendone la capitale dell'impero ottomano e decretando la fine di quello bizantino.
Maometto II, però, non era né vecchio né brutto. Aveva soltanto ventitre anni ed era un giovane di aspetto assai avvenente anche se di indole estremamente crudele e sanguinaria e il suo nome ossessionava non solo la Serenissima, ma tutto il Mediterraneo.

"Quei rostri -interloquì Mavera - per ora sono puntati sui possedimenti genovesi di Crimea. Ora che ha sfoderato la Spada di Allah, Maometto II se la ride nella sua barba scura fatta crescere da poco, ma Venezia non si lascia intimorire."
"Il sultano progetta sicuramente un'azione marittima e terrestre su larga scala." intervenne Orsini, a cui Raniero, che ascoltava in silenzio, prestava particolare attenzione.
"Occorre riunire una flotta di vascelli sotto un esperto comandante,- replicò Mavera - ma soprattutto occorrono alleati sicuri affinché non accadano fatti come dieci anni fa, quando la nostra fiducia ci costò cara, principe Orsini. Io ero un ufficiale, allora ed ho avuto questo ricordo a Costantimopoli." aggiunse, mostrando una vistosa cicatrice sull'avambraccio destro, che gli impediva quasi totalmente l'uso dell'arto.

                                       

Mavera si riferiva ai fatti accaduti nel 1444, quando Venezia con Genova ed Ungheria tentarono di spezzare l'anello turco stretto attorno a Costantinopoli e i genovesi tradirono e si vendettero.
"Conosco quei fatti: un maledetto tradimento, messere!"
"Oggi sappiamo meglio come andarono le cose e chi guidò..."
"Per questo dico che il pericolo ottomano si affronta solo facendo un fronte unico.- lo interruppe Orsini - Contese e rivalità tra principi devono essere deposte..."

Raniero ascoltava e pensava che con quei discorsi, l'allegra atmosfera rischiava di raffreddarsi, ma un piccolo fauno gli si avvicinò con dell'uva ed un biglietto; c'era scritto:
"Domani all'ora ultima, alla bottega. Samuelo."
Raniero si guardò intorno nel timore d'essere stato visto.

Nessuno badava a lui: la generale attenzione era rivolta ad una zingarella che si era piazzata al centro di una parete e stava in attesa, poi, nel silenzio calato improvviso, un sibilo attraversò la sala e la lama di un coltello sfiorò una manica della veste della piccola, prima di conficcarsi a pochi centimetri dalla sua spalla sinistra.
Gli sguardi di tutti si spostarono nella direzione opposta: Rames, il lanciatore di coltelli, pronto a lanciare il secondo pugnale.
"Quello zingaro maneggia il pugnale in maniera straordinaria." dovette ammettere a se stesso, Raniero, impressionato da tanta bravura.
"Che sollazzo avrei, - sentì la voce di una donna alle sue spalle - se al posto di quella zingarella ci fosse Donna Lucia o Madonna Lisa."
Raniero si voltò a guardare la donna. Non giovane, vistosamente  imbellettata e ingioiellata, addosso una preziosa veste di seta porporina e maniche con sbuffi raccolti da nastrini,  con un frustino teneva a bada un grosso pastore e con la mano libera giocherellava con un cagnetto dalle dimensioni così ridotte da sembrare un ninnolo.
C'erano molti  animali e si muovevano indisturbati per casa: cagnetti, pavoni, uccelli e perfino qualche coniglio.
La donna allungò il frustino e Raniero guardò in direzione della mano, che indicava una panca sovrastata da una "soaza", mensola tipica veneziana, che correva lungo la parete e che reggeva una quantità imprecisata di vasi e bronzi.