CAPITOLO I° - Jasmine
"Per maturare i suoi frutti, la palma deve avere i piedi nell'acqua e la testa nel fuoco" (proverbio arabo)
Alcanna. Con questo termine gli Arabi indicano sia il giardino che il Paradiso.
Il Sultano del Qatar s’era fatto costruire sulla parte più alta della collina su cui si stendeva la città di Doha, una cittadella fortificata di mirabile struttura architettonica che aveva voluto chiamare Ambra, cioè, Palazzo-Rosso.
Un vero Paradiso: padiglioni ombreggiati, pareti meravigliosamente intagliate, selve di colonne svettanti verso il cielo e sulla facciata centrale, un muro di cristallo con tanti fori quante sono le ore in cui il sole, entrando, permetteva di leggere il tempo a grandi distanze.
Erano i giardini, però, la gloria di quel palazzo: fontane zampillanti e profumi di piante e fiori che facevano dimenticare il mondo arido fuori le mura.
Dall’alto di una terrazza, nella parte più interna del palazzo, una ragazza sostava all’ombra di una colonna. Seduta sul bordo di una vasca che ospitava ninfee e loti, guardava oltre la siepe della balaustra rossa di bacche carnose e verde di foglie rigogliose. Guardava i tetti delle case, i pinnacoli dei minareti, le strade.
Diciassette o diciotto anni, era snella ed armoniosa nei tratti del corpo che si indovinavano sotto la veste di broccato che lei stessa aveva intessuto nelle lunghe ore della giornata. Ogni tanto si girava a guardare verso l’interno, come in attesa di qualcuno, poi tornava a riassettarsi con gesto grazioso la candida camicia e i larghi calzoni di leggerissima seta impreziositi da un corsetto ricamato ed annodato sul seno; una cintura dorata e morbide babbucce, anche queste dorate, completavano il suo abbigliamento.
La figura era delicata come un fiore cresciuto in serra e gli straordinari occhi verdi erano pieni di splendore, nutriti di sogni e fantasie. Dolci ed allungati verso le tempie, rivelavano innata curiosità e sensibilità; il candido jasmac di finissima mussola che le copriva il volto li faceva risaltare come due puri smeraldi.
Quella ragazza era Jasmine, pupilla del Sultano.
Era da sola e reggeva un libro chiuso tra le mani. Voci e risate, però, le sue ancelle che giocavano a palla, giungevano da vicino, oltre la grande siepe dietro cui s’era appartata per assaporare quell’attimo di solitudine.
Jasmine amava la solitudine e correva a rifugiarsi in quell’angolo luminoso per rifuggire dagli odori e dai profumi dell’harem e per sfuggire al buio dei corridoi. Da quei giardini, in posizione elevata, poteva guardare la città di sotto: i tetti, le strade, i palazzi e quella nebbiolina misteriosa e dorata che saliva verso l’alto, simile al suo trasparentissimo velo e rendeva morbidamente sfocati i colori dei boccioli ancora chiusi dei fiori della grande siepe.
Jasmine era una ragazza sensibile e romantica e come tutte le persone romantiche era anche amabile, introversa e con il bisogno quasi istintivo di crearsi un posto appartato e silenzioso dove rifugiarsi per consumare la solitudine come una preziosa leccornia. Solo così l’animo si apriva all’emozione, come le gemme alla rugiada, perché nulla come la solitudine suscitava nel più intimo riposto del suo animo, quelle sensazioni nascoste. E poteva vedersi correre, attraverso gli spazi infiniti creati dalla fantasia, in sella al suo amato cavallo ed offrire il volto e i capelli al vento. Libera e non segregata. Perché lei non era quel fiore di serra fragile e delicato che sembrava, ma un fiore sbocciato in mezzo al deserto. Lei era come una di quelle inimitabili meraviglie della natura che si aprivano alla vita dopo le brevi e violente piogge del deserto; una di quelle meraviglie della natura che non avevano eguali in bellezza e profumo.
“Jasmine…”
Una voce di donna la distolse dalle fantasticherie evocate dal richiamo irresistibile proveniente dal mondo oltre quella siepe; lo splendido piumaggio della ruota aperta a ventaglio di un vanitoso maschio di pavone, alle spalle, cercava di attrarre l’attenzione di una femmina.
“Sono tornati?… Sono tornati dalla caccia?” domandò.
Una donna di mezza età si fece avanti scuotendo il capo; recava qualcosa sulle braccia.
“Guarda il tuo mantello. – sorrise – Guarda che meraviglia!”
Jasmine si voltò; il gesto fece tintinnare i preziosi orecchini di lapislazzulo che sparsero sulla fronte bruna una luce azzurrina e fecero risaltare il colore degli occhi.
Il mantello era assai bello: una trama di perle, pietre preziose e monete d’oro composte come in un mosaico. Era anche pieno di mistero, poiché ogni gemma conteneva un messaggio: nel diamante c’era la purezza, nel topazio la regalità, nel lapislazzulo c’era l’augurio di ricchezza e c’era, infine, la femminilità riposta nel corallo.
Jasmine guardò il mantello, poi tornò a chiedere:
“Sono rientrati dalla battuta di caccia?”
C’era stato un tempo, pensava con una punta di amarezza, mentre allungava una mano verso quella meraviglia dell’estro femminile, in cui anche lei aveva partecipato a battute di caccia insieme al fratello Amud ed a suo padre: un pallido ricordo su cui il tempo aveva steso un velo pietoso.
Tese una mano verso il mantello, ma da una manica della tunica venne fuori un foglietto che toccò terra; Jasmine si affrettò a raccoglierlo prima che lo facesse qualcuna delle ancelle, alle sue spalle
“E’… è del principe Ben…” sorrise una di loro.
Jasmine non rispose e lo fece sparire in seno, poi sospirò e si girò a guardare il crepuscolo sanguigno del tramonto. Gli ultimi sprazzi di luce tenacemente attaccati alle colonne strapparono bagliori ai suoi occhi, dentro cui brillava quella fiamma che brucia i veli dell’innocenza e accende i turbamenti segreti e misteriosi dei primi amori.
Senza una parola, la ragazza dette le spalle alla balaustra e si allontanò verso l'interno accompagnata da una brezza leggera ma frizzante. Si strinse nel mantello e lanciò un’ultima occhiata alla città pennellata di rosso dal crepuscolo sanguigno della sera ed ecco, in mezzo a quelle fiamme, emergere il bel volto del principe Ben.
Il principe Ben! Il loro incontro! Primo, unico e sconvolgente. Il primo bacio. Appassionato e casto, che trascendendeva gli istinti della carne. Un bacio unico. Capace di congiungere le anime prigioniere dei corpi solo attraverso il contatto delle labbra.
Nessuno l’aveva mai baciata così. Nessuno l’aveva baciata mai. E poi le sue parole: “Ti amo, Jasmine…”