Capitolo XIV - Alla corte del Duca

Capitolo XIV  - Alla corte del Duca
Se il 400 fu un secolo di santi e ladri, avventurieri e diplomatici, cortigiani e congiurati, le corti furono i teatri di posa di tutti questi attori, compresa quella del Duca di Milano.

Raniero e Spaccamontagne vi giunsero due settimane dopo, espressamente invitati dal Duca il quale desiderava conoscere i due temerari che avevano sfidato e giocato la Serenissima.
C'era una lunga fila di persone, nobili, cortigiani ed artisti, nella Galleria d'Armi, adiacente la Sala delle Udienze, in attesa di essere ricevuti dal loro signore.
La Galleria, un ambiente severo ma elegante, era l’espressione della maestosità  architettonica ed artistica con cui il castello ducale era stato concepito: scene di storia del casato che davano vita alle pareti ed al soffitto a cassettone,  stemmi gentilizi degli Sforza e dei Visconti che occupavano la parete in fondo,  tappeti dei telai di Smirne e Bagdad che attutivano passi, specchi di Venezia e marmi di Carrara e altro ancora.
Era, però, anche un ambiente in cui non tutti parevano muoversi con disinvoltura: i soldati, ad esempio, più avvezzi a calpestare erba in campi aperti.  I cortigiani, invece, appariscenti e vanitosi come pavoni con la ruota aperta, parevano trovarsi a proprio agio.
A guardarli, così fatui e superficiali, parevano graziose creature inoffensive, ma nella realtà erano infidi, bugiardi, megalomani ed egocentrici.
In mezzo ad una marea di facce sconosciute, Raniero e il compagno scorsero finalmente quella di una vecchia conoscenza:
"Tristano! Che piacere incontrarti." esclamò Raniero agitando un braccio per attirare l’attenzione del figlio del Duca di Milano..
"Raniero... Spaccamontagne! – Tristano Sforza lasciò immediatamente il crocicchio di persone che lo attorniava ed andò loro incontro - Qui a Milano non si fa che parlare di voi due e delle prodezze che avete compiuto a Venezia."

Tristano Sforza non era solo, con lui c'era   Antonio Averlino, detto il Filarete, architetto fiorentino che il duca Francesco Sforza, per il desiderio di dare alla città un palazzo a cui collegare il proprio nome e la propria memoria, come Gian Galeazzo Visconte aveva fatto con il Duomo un secolo prima, aveva chiamato per la costruzione di uno "Spedale"; la prima pietra di quell'edificio, sarebbe stata simbolicamente posata dal Duca e dalla Duchessa, in presenza del clero e del popolo, proprio quel giorno, dopo le gare della "giostra".
"Siete dunque voi –interloquì il grande architetto - i due arditi fuggiti dalle scomode galere della Serenissima?"
"Oltremodo scomode, messere." assentì Raniero con un sorriso.
"Assai più di palazzi e cattedrali... in fede mia, messere" gli fece eco Spaccamontagne, al che il figlio dello Sforza replicò:
"Che vestano ferro oppure lino, che trattino lancia o aratro, questi due nostri amici faranno sempre onore alla città di Milano."
"... e il Duca apprezza simili qualità ovunque si trovino." aggiunse l'architetto.
Era assolutamente vero; Francesco Sforza ammirava coraggio e astuzia politica e militare e appena  gli fu riferito che i due eroi del momento erano in attesa, non volle farli aspettare oltre e li ricevette immediatamente.
Un attimo dopo, Raniero e Spaccamontagne furono al suo cospetto.

Il Duca non riconobbe subito nel giovane soldato che gli stava di fronte, capelli lunghi sul collo, un accenno di barba, una tunica bianca filettata nera sopra i gambali di ferro, lo sconosciuto che quattro anni prima gli aveva salvato la vita in una locanda sulla via per Milano, ma riconobbe subito la spada che gli pendeva dal fianco sinistro.

"Quella spada." esclamò.
"Me la donaste, signore..." cominciò il ragazzo, ma il Duca non lo lasciò proseguire.
"... in una locanda sulla strada per Milano.- fece una pausa, si lisciò il mento fissando il giovane con intensità, poi continuò - Rammento bene. Mostraste il vostro valore anche in quella occasione, ma ciò che voi e il vostro amico avete fatto a Venezia, non ha dell'uguale per audacia e coraggio."
"Da quando siamo tornati a Milano non sentiamo parlare che di quanto grandi siano state le nostre prodezze… finiremo per crederci davvero, signore, eh,eh,eh..." ridacchiò Spaccamontagne alle spalle del ragazzo.
Tanta notorietà dovrebbe anche essere di qualche utilità. – pensava intanto, con quel senso pratico che non gli faceva mai perdere di vista eventuali opportunità, tuttavia, aggiunse: 
“Pane quotidiano, signore!"
"Ditemi, miei coraggiosi, in che modo posso ricompensare il vostro valore?" domandò il Duca, quasi gli avesse letto nel pensiero.

Mentre lo sguardo di Spaccamontagne prese a brillare come quello di un animale da preda,  negli occhi di Raniero passava un’ombra. Il giovane sollevò lo sguardo sul Duca.
La fronte grave, il volto angoloso, come scheggiato da una selce, Francesco Sforza era inequivocabilmente una creatura superba.  L'incedere era maestoso, lo sguardo altero, i modi aristocratici.
La superbia, però, era quasi sempre un "vizio di valore", gli aveva insegnato la vita. Raniero sapeva riconoscerla e perfino  apprezzarla.
Anche il Duca. però,  possedeva simili "talenti" e due persone di pari valore si riconoscono subito.
"Se posso osare,- esclamò il ragazzo - voglio chiedere non di compensare il soldato, ma di assicurare giustizia al suddito."
"Avete patito qualche ingiustizia?" domandò il Duca.
"Il mio nome, signore, è Raniero, dei conti Pisano. Quella sera alla locanda...”
Il racconto ebbe inizio;  il Duca ascoltava con espressione sinceramente interessata, mentre sulla bella faccia del ragazzo passava una gamma di sentimenti profondi e sofferti; Spaccamontagne e Tristano non fiatavano.
“...e quella notte stessa lasciai il castello e il Dio dei diseredati mi mise sulla vostra strada, mio signore. - concluse il ragazzo - Ed ora eccomi qui a chiedere giustizia e il permesso di vendicare lo sterminio della mia famiglia e il sacrilegio fatto alle ceneri di mio padre."
Il Duca appariva profondamente colpito da quel racconto ed anche Spaccamontagne, che guardava l’amico come se lo vedesse per la prima volta.
Francesco Sforza assentì col capo: giustizia e vendetta!

In un'epoca in cui l'assassinio poteva essere legittimato, in cui la violenza tutelava privilegi, una nuova morale aveva finito per regolare i costumi della società e la vendetta era entrata di prepotenza a farne parte come sacrosanto diritto dell'offeso.
"Mio giovane amico, - disse, infatti, il Duca - avevo un feudo in serbo per voi e per il vostro amico. Datemi giustizia e consentitemi vendetta, voi chiedete: ebbene le avrete. Oggi stesso manderò un inviato al castello Pisano per ordinare a Galeazzo Pisano di comparirmi davanti in Tribunale."

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L'abito, dicono gli studiosi, è uno strumento di comunicazione. Comunica la potenza e la ricchezza di chi lo porta ed é indizio della condizione sociale ed economica e perfino politica della società cui appartiene chi lo indossa.
Nelle feste di corte, sfoggiare abiti sfarzosi ed acconciature elaborate, per le donne, ma anche per gli uomini, significava dichiarare il proprio stato sociale e il peso della borsa.
La corte del Duca, a cui Raniero e Spaccamontagne furono invitati subito dopo le udienze, riunita nel cortile del castello per disputare un torneo, si era trasformata in una fiera della vanità.
La guerra aveva dissanguato le casse del Ducato, eppure le donne di corte erano agghindate di tutto punto ed ingioiellate e alcune di loro erano vestite così riccamente da portarsi addosso un intero patrimonio: le sole maniche, con frange e ricami in oro e preziosi, valevano una fortuna; per le vesti in broccati e velluti e per i gioielli, parevano avessero impegnato gli averi di tutto il proprio casato.
Spaccamontagne si chinò all'orecchio dell'amico.
"Quelle gran dame così addobbate pare si portino dietro le loro ricchezze come fanno le lumache con la propria casina."
"Ah,ah,ah..." rise Raniero a quel  paragone assai calzante.

La dama di corte del quattrocento era una donna assai vanitosa. Occupava buona parte del proprio tempo per la cura della persona e in particolare per i capelli, che lavava tutti i giorni e raccoglieva in trecce sostenute da artificiosi ornamenti. Il tempo che avanzava lo impegnava per le passeggiate a cavallo o per ricevere amici e protetti, spesso artisti ed intellettuali.

In mezzo a tutte quelle dame, la duchessa Bianca Visconti, moglie di Francesco Sforza, si distingueva per classe ed eleganza.
La duchessa era una donna di grande sensibilità e curiosità intellettiva; aveva ricevuto una educazione rigida ma eclettica, che aveva fatto di lei una persona dall'apparenza fragile e delicata ma dal carattere forte e indistruttibile.
L'abbigliamento era sobrio, ma con qualche concessione alla civetteria. Per l'occasione indossava sopra una semplice veste verde, una sopraveste di prezioso broccato giallo oro dalle cui spalle partivano maniche di candido zibellino maculato, aperte ed a punte, lunghe fino ai piedi. I capelli, bruno rossicci, divisi sulla fronte, erano nascosti da una cuffia di seta bianca.
Il suo colore era il giallo ed alla giostra, la lancia di Raniero, invitato a partecipare alle gare, portava la ghirlandetta con i nastrini di quel colore.
 

La gara stava per iniziare. Si trattava di infilare con una lancia, al galoppo, una fila di anelli sospesi ad un'asta; per l'occasione, il cortile interno era stato trasformato in un'arena all'aperto e gli otto cavalieri in lizza, erano già  pronti in sella dietro la barriera di avvio, in attesa del segnale.
Seduto su un imponente seggio sopra un podio sistemato in fondo alla scalinata principale e circondato dalla sua corte, il signore di Milano fu raggiunto dalla duchessa e dalle sue dame e l'atteso segnale finalmente arrivò, preceduto dal bando di un araldo che proclamò ad alta voce le regole del gioco; furono poi presentati i contendenti e l'araldo accostò ad ogni colore in lizza il nome del campione che lo difendeva.
"Raniero, conte Pisano." declamò, quando arrivò al nome del campione di madonna Bianca Sforza Visconte; il bando terminò con la frase di rito:
"Vinca il più valente fra i cavalieri!"
Accompagnati dalle grida di incitamento di tutti gli spettatori, di cui il cortile era gremito, i cavalieri si presentarono sotto il podio a ricevere le ghirlandette colorate.
"Alvaro da Toledo."
"Gaspare da Brindisi."
"Giuliano Todi."
La folla acclamava ogni volta che un cavaliere prendeva dalle mani della dama la sua ghirlanda.
"Alfonso Franzesi"
"Raniero Pisano."
Finalmente la gara ebbe inizio.
I primi due cavalieri riuscirono ad infilare, dei diciotto, quattro anelli ciascuno; il terzo fu più fortunato, ne infilò ben sette, ma il quarto, quell'Alvaro da Toledo, spagnolo, proveniente dalla corte pontificia, riuscì a portar via dall'asta ben quindici anelli in un sol colpo, due volarono via e l'ultimo restò sull'asta e uno scroscio di applausi salutò quel prodigio di abilità.
Nessuno, asserivano tutti, avrebbe potuto mai superarlo: ad infilare tutti i diciotto anelli, c'era riuscito nella giostra dell'anno precedente, un solo cavaliere, Gilberto da Spoleto, che da quattro anni deteneva la palma di campione della giostra di Milano.
Gilberto da Spoleto, un giovane sui ventisei o ventisette anni, non proprio di corporatura atletica ma assai agile nella pesante armatura, era pronto alla partenza e si lanciò al galoppo con l'irruenza che tutti gli conoscevano e portò via tutti gli anelli ed insieme un urlo di ammirazione.
Venne il turno di Raniero; il ragazzo calò la celata dell'elmo e spronò il cavallo, poi sollevò sul capo la lancia e premette gli speroni sul fianco dell'animale che partì al galoppo.
Cortigiani e cavalieri non lesinarono commenti lusinghieri e sul suo modo di guidare il cavallo e sull'abilità nel maneggiare l'arma e le donne ne ammirarono la figura elegante e il portamento.
L'armatura del giovane era priva dei fregi che ornavano quelle degli avversari, ma il cimiero piumato sventolava audace  sull'elmo, mentre, all'unisono, come fossero un'unica creatura, si muoveva col cavallo.
Giunto a due metri dall'asta che reggeva gli anelli, Raniero si levò in arcioni, spinse in avanti prima il busto, poi la lancia ed infilò gli anelli, tutti, in un colpo.
Un'ovazione salutò quella prodezza.
I campioni erano due e si passò allo spareggio: venti anelli.
Gilberto, in qualità di campione in carica, tentò per primo. Lanciò il cavallo al galoppo con tale impeto che gli zoccoli dell'animale sprigionarono scintille, ma sull'asta rimasero tre anelli.
Raniero raggiunse la postazione e guardò l'asta: infilati tutti insieme l'uno dietro l'altro, gli anelli parevano un lungo cilindro luccicante e freddo.
 

Il ragazzo chiuse un occhio e mise a fuoco l'altro per prendere la mira ma, di tra le assi della celata abbassata, in fondo al "cilindro", c’era l'orbita vuota di un teschio ed un mantello nero svolazzava inquieto intorno all’asta.
Era tornata! Madonna Secca era tornata.
"Non ti arrendi! Tu non ti arrendi mai!" pensò a bassa voce e le parole gli parvero essere rimaste dentro la celata, minacciose, pesanti, come se a pronunciarle fosse stata "Lei" e non egli stesso.
Incurante, ormai avvezzo a quegli “incontri”, il ragazzo puntò la lancia verso quella spettrale visione;  spronò il cavallo e gli conficcò gli speroni nei fianchi.
L’animale partì come un fulmine e Raniero, insieme all’intera tribuna, seguì con lo sguardo  la lancia  e la punta che andava ad infilare gli anelli ed "infilava" anche quell'orbita terrificante.
L’orrenda visione andò immediatamente in frantumi: una miriade di nere scintille che saturarono l’aria di un gelo improvviso.
Raniero  restò immobile, ritto in arcioni qualche attimo, seguire con  sguardo contrariato quei brandelli in fuga: il tempo di riscuotere per Comare Secca è prossimo, ma non era quel giorno; intorno a lui, intanto ovazioni ed acclamazioni entusiastiche empivano l’aria.
Il ragazzo voltò il cavallo e si avviò al trotto verso il palco dove lasciò andare gli anelli e rese i colori alla dama per cui si era battuto.
"A voi, madonna, i colori che con la vita e per l'onore ho avuto il privilegio di difendere."
"Avvicinatevi, mio Campione. Cristo sia con voi!" recitò la Duchessa raggiante di gioia; neppure il Duca nascose la propria soddisfazione per l'esito di quella gara.
"Il premio al campione." esclamò ed uno splendido cavallo arabo, dal lucido pelo raso, fu portato avanti.