CAPITOLO III - LA GRANDE CAROVANA

CAPITOLO   III  -  LA GRANDE CAROVANA

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CAPITOLO  III° - La Grande Carovana

"I dromedari li hanno fatti gli Angeli di Allah!” – (proverbio   arabo)

             
Era partita da Dukan, destinazione Doha ed in ferrovia aveva raggiunto Waqra dove Ibrahim l'aspettava per guidarla attraverso il deserto: una delle tante carovane allestite dalla London Camel Company che da mezzo secolo aveva avviato floridi commerci tra i Paesi arabi e quelli europei.  A  commissionarla era stato lo sceicco Abdel Aziz  per riscattare il fratello, Hammad, ospite delle prigioni del Sultano con l’accusa di frode.
Ibrahim, uomo audace e coraggioso, professionista fra i più quotati, dirigeva almeno tre carovane l'anno e da una mezza dozzina di anni era il capo carovaniere più richiesto. Figlio di cammellieri, aveva attraversato il deserto un’infinità di volte; ne conosceva ogni angolo e la sua esperienza era pagata a peso d'oro. Intorno alla sua figura s'era formata una leggenda che lo vedeva in continua lotta con i predoni della  terribile tribù Kinda e si diceva perfino che avesse difeso un carico da un attacco di Rashid in persona. In tutti quei racconti qualcosa di vero doveva esserci, dal momento che era l'unica persona capace di portare le carovane quasi intatte a destinazione e se si consideravano tutti i pericoli del deserto, animali, predoni, malattie, incidenti ed insolazioni, il suo era davvero un grande merito.
A dargli una mano nel compito di ispezionare la carovana ferma a Wakra, c'era Assan, il suo vice, un giovane coraggioso ed ambizioso, ma  ancora in attesa della buona  occasione. 
Efficiente e scrupoloso, effettuate le operazioni di carico sui cammelli, Assan si apprestava ad un’ennesima ispezione prima di lasciare il caravan serraglio.

Posto curioso e tipicamente arabo, il caravan serraglio merita un piccolo appunto. Era una grande costruzione in pietra. Luogo di arrivo e partenza delle carovane, qui riposavano cavalli e cammelli sgravati dai carichi e qui sostavano i carovanieri prima di riprendere il deserto. L'interno era diviso in due scomparti distinti, l'uno con locali adibiti a stalle e l'altro, al ristoro dei viaggiatori. Gente di ogni razza e colore, costoro, avventurieri e carovanieri, vestivano caftani, burnus, sari e abiti coloniali.  Sostavano, al riparo dei raggi di un sole implacabile, sotto le tettoie di legno frastagliate dell'arco di entrata, un gioiello di architettura che raccontava la vita di Maometto; conversavano animatamente mentre intorno a loro venditori di polli, cocomeri e datteri offrivano la mercanzia su stuoie stese per terra.
Una folla numerosa e fitta rumoreggiava fuori le mura del caravan. Venditrici di pani e spezie, sedute per terra in lunghe file, alla vista di ogni straniero, si affrettavano a celare i volti con un lembo del velo che reggevano tra i denti per avere le braccia  libere.
"Allah protegga i vostri passi e quelli dei vostri compagni."  il carovaniere ritirò i cocomeri dalla mano grinzosa dell’ambulante.
"Doha è lontana." rispose per lui il compagno, un maharatty dell'India centro meridionale.
"Il deserto di Ar-Rimal è pericoloso. - aggiunse l'arabo- Ma la vostra scorta è bene armata. Rashid, il rais dei Kinda, dovrà penare se attaccherà i vostri convogli." aggiunse alzando la fronte, che profondi solchi attraversavano da parte a parte.
"Se sentirà l'odore della vostra mirra  non gli sfuggirete." interloquì una terza persona.
"Rashid! Rashid!- esclamò il carovaniere, un europeo vestito all’orientale, baraccano e keffiew - Vorrei proprio incontrarlo."
Era sir Richard Reginald Alcot, rappresentante della Compagnia inglese; venticinque o ventisei anni anni, alto di statura, prestante e bruno di colorito, ma più per esposizione al sole, poiché il colore delle ciglia e delle sopracciglia erano di un castano chiarissimo. Sotto la keffiew dovevano celarsi, con molta probabilità, capelli biondi. Dal collo gli pendeva un potente binocolo, di quelli in uso presso i marinai.
A Waqra non accadeva come a Doha, a Masqat o a Dubai, dove Oriente ed Occidente s’incontravano e si mescolavano: europei vestiti all’araba e arabi vestiti all’europea. Qui era tutto nettamente diviso: Occidente ed Oriente. Fianco a fianco senza mescolarsi. Ma senza, neppure ignorarsi.  Ecco perché quell’europeo con keffiew e burnus, ma con binocolo al collo, differiva davvero molto da tutti gli altri.
"Ho condotto decine di carovane attraverso il deserto del Sahara - continuò, in risposta allo scettico sorriso che aveva accolto le sue parole- ed ho incontrato decine di Rashid sul mio cammino."
"Rashid il coraggioso! Rashid il generoso!" declamò con enfasi l'arabo. E l'altro, in un arabo quasi perfetto:
"Hhhh! E' solo un predone!" ribatté e gli dette le spalle.
Scuoteva la testa, l’europeo, mentre si allontanava: lo sapeva bene che per quella gente le ricchezze depredate erano le sole ricchezze rispettate. Proprio per questo, andava dicendosi, quel predone, quel Rais, era così rispettato: perché sicuramente sapeva “far cantare la polvere”.
Immerso nelle sue riflessioni, andò quasi ad investire un gruppo di sfaccendati intorno ad un banco che esponeva armi e cassette di munizioni; più lontano si udivano colpi di fucilì: compratori che provavano le armi.
“Chi non è armato ha sempre torto!” sentenziò sottovoce con un sorriso eloquente.

Quando l'ispezione fu terminata la mattinata se n’era già andata, soprattutto per gli ultimi preparativi, quelli che cominciano e non si sa quando finiscono. 
Assan si accingeva a montare in sella quando un uomo attirò la sua attenzione: con voce agitata indicava il  tempietto di El-Kerim l’eremita.
Fu presto raggiunto e trovarono il corpo del vecchio in una pozza di sangue. Ma non era da solo: nello stesso sangue c'era il corpo straziato di una ragazza.
“E’ ancora viva. Questa giovane donna è ancora viva…. Misericordia di Allah!- proruppe Assan- Ma cosa é successo, qui?"
"Chi può aver voluto la morte di questo santo uomo?- fece eco alle spalle di Assan la voce dell'uomo che aveva scoperto l'eccidio - La poveretta respira ancora."
Liberata dal corpo del vecchio, la ragazza si mosse.
"Chiama una delle tue schiave, Amin - ordinò Assan- e falle lavare la ferita e tu, Bibal, vai a chiamare il dottore."
I due uomini si allontanarono veloci e ricomparvero subito dopo, l'uno in compagnia delle schiave, due giovani persiane destinate all'harem del sultano e l'altro seguito dal dottor Scott, un gallese ingaggiato per quel viaggio dalla Compagnia inglese.
Le due ragazze, garza e catino d'acqua in mano, pulirono la ferita dalla sabbia e dal sangue; aggregati alle carovane non mancavano mai abd e haratines, schiavi ed affrancati, prigionieri di secolari tradizioni, che molto spesso portavano il nome dello schiavo preferito di Maometto: Bibal. 
"E' ferita gravemente?" s'informò Assan, alle spalle del dottore, che stava esaminando le condizioni della giovane.
"E' una ferita superficiale." gli rispose quegli, un uomo non più giovane, magro, piccolo di statura, pelle olivastra, stempiato e brizzolato ed un mantello dal dubbioso ed incerto color dattero, gettato quasi con negligenza sopra una giacca coloniale.
"Come si spiega, allora, questo abbattimento?"
"Ha perso molto sangue. – il dottore sollevò lo sguardo in faccia al vice carovana che continuava a scuotere il capo - Sarebbe sicuramente morta dissanguata se noi avessimo tardato ancora."
"Chissà da quanto tempo era lì, per terra." interloquì una delle due schiave.
"Poveretta." l'altra le fece eco con voce pietosa.
"Non meno di un'ora, suppongo." spiegò il dottore.
"Più di un'ora. - precisò Assan- Vedete queste foglie di tamarindo che ha trascinato con sé cadendo? -raccolse una foglia; la rigirò fra le mani -  Hanno perso resistenza ed occorrono almeno due ore prima che ingialliscano."
"Volete dire che giace qui, ferita, da almeno due ore?" domandò il dottor Scott.
"Proprio così! Nonostante la fragile apparenza, questa ragazza deve avere una straordinaria vitalità. Non ho visto nessuno resistere così a lungo sotto un sole tanto implacabile... Ma perché l'avranno ucciso?- indicò  il corpo del vecchio che veniva rimosso per provvedere alla sepoltura- E chi sarà stato?"
"Soldati! Senza dubbio. - osservò Assan- Ci sono tracce di cavalli qui intorno.”
"Cosa potevano volere da questo santo uomo?" domandò ancora il dottore; Assan si strinse nelle spalle, poi ai due schiavi:
"Orsù! Dategli sepoltura e tornate alla carovana. – ordinò e agli altri due – Trasportate questa ragazza sul mio cammello."
La ragazza aprì gli occhi, due stupendi occhi neri e febbricitanti, ma li richiuse subito; doveva essere spossata.
Il cammello che doveva trasportarla era someggiato con due grosse ceste cariche di tutto ciò che componeva un equipaggiamento desertico: tenda, coperte, vestiario.
I cammelli che sir Richard aveva  fatto acquistare per quella traversata erano della razza dromedari, ad una sola gobba; animali intelligenti e forti, veloci e resistenti, idonei ai lunghi percorsi, ma per nulla docili e pazienti. Animale aristocratico ed un po’ sdegnoso, a suo riguardo gli Arabi hanno creato un detto: Novantanove sono i modi con cui l'uomo può chiamare Allah, ma il cammello ne conosce il centesimo e questo lo fa sentire superiore all'uomo.
Il cammello fu fatto inginocchiare; sulle ceste furono posti dei cuscini e la ragazza venne adagiata su quel letto improvvisato; per ripararla dal sole fu steso ad arco un telo leggero sostenuto da stecche di legno; sotto quella piccola capanna poteva riposare tranquilla.


"Si parte!"  Ibrahim si mise alla testa della lunga schiera; un grido gutturale: il segnale per incitare i cammelli.
“Si parte!"    Sir Richard ripeté l'ordine. 
Ritto in sella, la figura elegante ed atletica, al fianco il temibile gambiya, il pugnale yemenita, il lord la guardava passargli sotto gli occhi.
Sir Richard apparteneva ad antica nobiltà inglese ed era stato iniziato alla carriera militare per tradizione di famiglia. Mandato in Asia, il mito d'Arabia, che già cominciava a drogare il sangue di molta gioventù europea, lo aveva immediatamente conquistato. Gli occhi ardenti, di un  intenso azzurro, custodivano le irrequiete essenze di uno spirito vagabondo e di una spensierata giovinezza. Adoprava nel parlare un singolare  miscuglio di arabo ed inglese con cui, però, riusciva a farsi capire molto bene ed a farsi accettare.
Non così all’inizio, in verità. In molti, soprattutto uomini reclutati sulla costa, avevano disdegnato perfino di “accorgersi” della sua presenza, non degnandolo mai di un saluto. Ma siccome  il dovere dell’ospitalità quella gente l’aveva succhiato assieme al latte materno, per salutare “l’infedele”, finivano  per scomodare qualche musulmano suo amico:
“La pace di Allah che accompagna l’amico dell’infedele,  si estenda anche a lui.”  dicevano.
L’epiteto “infedele”, però, prima diventato sahib, aveva finito per restare  semplicemente “sir”.
Qualche volta gli capitava di perdere quella flemma tutta britannica che accompagnava gesti e parole ed allora si esprimeva nei termini più pittoreschi suggeriti dalla lingua araba e dalla vita di caserma lasciata ormai da tre anni, da quando, cioè, era partito dall'Europa.
Temerario e coraggioso, era, in realtà, un uomo prudente ed  aveva già accompagnato una mezza dozzina di carovane attraverso il deserto del Sahara.
La carovana si mosse e Waqra scomparve alle sue spalle per ricomparire dopo un po’ e scomparire, infine, inghiottita dall’orizzonte.
"Chi c'è in quell'alcova?" chiese, quando il cammello di Assan gli passò accanto, incuriosito dal baldacchino e dalla figura nell’abbandono del riposo che si riusciva appena a scorgere.
"E' una ragazza. - spiegò laconico il portatore, uno dei tanti addetti al carico e allo scarico delle merci – L'abbiamo trovata ferita ed Assan l'ha fatta curare"
Il vice si accostò ai due.
"Qualcosa non va?" chiese.
"Tutto va bene! - rispose l'inglese- Mi ha incuriosito quella strana alcova e la ragazza che la occupa."
"Le ho salvato la vita. Penserò io a lei." spiegò Assan.
"Certamente." il lord  spronò il cavallo e si allontanò.
In verità, era stupito di quell'atto di generosità: conosceva  assai bene Assan e il  suo illimitato senso degli affari.  Rallentò e si affiancò ad un cavaliere che cavalcava in testa alla carovana: era lo sceicco Abdel Aziz, l’uomo che aveva commissionato quella traversata.
“As-salamu alaikum” (La pace sia con voi) salutò, in un arabo quasi perfetto.
“Wa alaykumu s-salam”   rispose quegli, curvo sulla sella in atteggiamento pensoso.

(continua)
brano tratto dal libro