Gli incontri che si possono fare, durante la vita,
possono avere conseguenze positive o negative per tutti i
nostri giorni a venire; se poi questi incontri si fanno in tenera
età, bisogna stare davvero attenti, potrebbero fermarci la
crescita... definitivamente.
A dodici anni, gli incontri, hanno un che di magico,
non si pensa affatto alle conseguenze (non prima di averli
fatti comunque) e, un invito, è un invito.
Così, quando gli zii organizzano una mega festa per
inaugurare la nuova, enorme terrazza, che aveva sostituito il
fatiscente ballatoio con le assi di legno che lasciavano
pericolosamente intravedere l‟aia di sotto, era assolutamente
necessario partecipare. Anche perché in quelle occasioni si
mangiavano le migliori carni grigliate mai viste e,
sicuramente, era stata anche invitata quella splendida
ragazzina dagli occhi scuri che mi faceva battere il cuore;
veramente lo faceva battere un po‟ a tutti noi giovani virgulti,
per cui la competizione per ottenere i suoi favori e, magari
trovarsi “imboscati” nel fienile degli zii insieme a lei, era
accesissima e senza esclusione di colpi.
Forse qualche sorriso in più o l‟illusione che quei
sorrisi dispensati ad arte fossero destinati solo a me, mi
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avevano fatto credere che il “pole-man” del momento fossi io
e quindi gongolavo (o se gongolavo).
La tavolata era magnifica, almeno cinquanta persone
sedute di fronte ad ogni ben di Dio prodotto dalle sapienti
mani degli zii: carne di maiale cotta alla brace, salami e
salsicce; poi formaggi, insalate russe e giardiniere, pasta con
il sugo e vino, il sublime, genuino vino prodotto nella cantina
sotterranea e Lei c‟era.
Ovviamente il vino non era destinato a noi babani che
avevamo a nostra disposizione bibite assortite e, naturalmente
abbondante acqua fresca, ma il diavolo, quella volta, ci aveva
messo lo zampino e di fronte a tre “fenomeni” campeggiava
un intero pintone di delizioso dolcetto.
Vuoi mica lasciarlo lì a languire e rimanere tristemente
pieno? Non sia mai e, dopo i timidi primi assaggi fatti con
aria cospiratoria, l‟alcol scioglie i freni inibitori e,
ostentatamente, con l‟aria di veri uomini vissuti,
tracannavamo bicchieri dopo bicchieri sino a che il pintone
non fu desolatamente vuoto.
Ho scoperto lì di avere la ciucca allegra: non ho smesso
di ridere per tutto il tempo e di sparare stupidaggini ridendo
poi come un beota. Questa inclinazione allo spettacolo aveva
però i suoi risvolti negativi: la ragazzina dagli occhi scuri.
Non poteva approvare un simile comportamento indecente,
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avrebbe orientato sicuramente le proprie scelte su un altro
spasimante più morigerato e meno ridanciano. Avrei potuto
morire per una cosa del genere.
«Per un bicchier di vino ho perso la ragazza!» questa
era la frase inesatta che ripetevo a mio padre lungo la strada
verso casa. Inesatta per due motivi: innanzitutto non era “un”
bicchier di vino, ma molti, molti di più e, in secondo luogo,
lei, non era la mia ragazza, avrebbe potuto esserlo, forse, ma,
in quel momento, tecnicamente non lo era. Quindi non potevo
averla persa.
L‟altro “mantra” che ripetevo in continuazione (e qui
era solo per l‟istinto di sopravvivenza) era « Tu, papà vero
che mi capisci?» alludendo alle sue frequentazioni alcoliche.
In effetti, mio papà mi diede molta comprensione e fu
di grande aiuto quando dovetti liberarmi di quanto avevo
accumulato nello stomaco, utilizzando una bella spremuta di
limone concentrato e senza zucchero.
Tutto questo accumulo di iatture avrebbe dovuto
sconsigliare qualsiasi ulteriore approccio all‟alcol che non
fosse il bicchierino di moscato a Natale con il panettone o il
mezzo bicchiere di vino rosso “puro” (non macchiato
dall‟acqua) che si doveva assolutamente bere con l‟uovo o
con il riso che, nasce nell‟acqua, ma deve morire nel vino,
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invece dopo alcuni mesi di morigeratezza, arriva carnevale e
non c‟era nessuna ragazza da perdere..
Fino a quel momento il carnevale di noi giovani elfi era
passato dal costume di Zorro o di un generico Cowboy a
quello meno denso di avventure, ma sicuramente più
divertente di “Tascia, la bagascia” costruito con vestiti di mia
madre sostenuti da due arance infilate in un reggiseno e
condito con un trucco degno della più autorevole
rappresentante del mestiere più antico del mondo; costumi
che venivano sfoggiati durante la sfilata dei carri nelle vie del
paese e che non avevano alcuna pretesa stilistica, solo puro
divertimento.
Ma quell‟anno veniamo a sapere che, nella mitica
discoteca del Music Club, che avevamo avuto la possibilità di
frequentare qualche volta (soprattutto la domenica
pomeriggio), avevano organizzato una fantasmagorica festa
in maschera con “ricchi premi e cotillons”. Il Music
(chiamato così per brevità) era l‟unica discoteca alla quale si
poteva arrivare a piedi e, data la scarsità di mezzi di trasporto,
questo era un requisito fondamentale.
A quel punto era assolutamente necessario decidere
quale costume avremmo indossato, perché l‟ambizione era
quella di vincere almeno i cotillons; escludendo a priori il
costume di Zorro e quello del Cowboy (solo perché non
erano più della nostra misura) ed anche quello di Tascia che
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avrebbe potuto attrarre le attenzioni di altri maschi “in
calore”, la tempesta di cervelli produsse un‟idea da mille e
una notte.
Qui si potrebbe immaginare che avessimo scelto
costumi da odalische e da Aladino, ma eravamo tutti maschi e
al massimo potevamo fare Alì Babà e i sei ladroni visto
l‟esiguo numero dei componenti del gruppo.
Data la nostra assoluta inettitudine musicale, la scelta
cadde sulla messa in scena di una attrezzatissima,
s(f)wingatissima, jazz band nera.
Colorati come solo i pappagalli nella jungla, con un
cilindro rosso in testa, la faccia annerita con i tappi di
sughero bruciacchiati, vestiti come degli impresari di pompe
funebri sgangherati e dotati di tutti gli strumenti musicali più
improbabili: tamburi fatti con i fustini del detersivo, chitarre
con il manico di una scopa e un vero genis da banda che
brandivo come un bazooka, non avendo idea di come
funzionasse nella realtà.
Quindi, occhiali scuri nonostante fosse notte e via
verso la performance musicale del secolo. Arrivati in
discoteca vedemmo subito che altri gruppi, molto più
riccamente organizzati, avevano intenzione di sottrarci il
primato a cui sentivamo di avere diritto; antichi romani e
nobili cortigiani sfoggiavano costumi di raffinata fattura ed
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accessori ricercati, ma noi avevamo un asso nella manica: la
performance.
I nostri avversari si limitarono ad una asettica,
autoreferenziale sfilata di fronte alla giuria senza nulla
aggiungere ai loro, indubbiamente, bei costumi; la jazz band
nera invece aveva in serbo uno show.
Dopo aver preso accordi con il mitico proprietario e
dee-jay e barista e ... della discoteca, l‟imprescindibile
Corrado, voce arcinota di una radio locale, scendemmo in
pista con un “Stasera mi butto” di Rocky Roberts nel quale il
nostro front man Guido espresse doti da rock star circondato
da musicisti di altissimo livello (non quello alcolico... non
ancora...). Standing ovation, complimenti unanimi, pacche
sulle spalle, facevano presagire una vittoria schiacciante, ma
si sa, le giurie, per loro stessa natura, giudicano in base ad
imperscrutabili e incontestabili (forse) criteri che solo loro
conoscono e, la vittoria, andò al gruppo dei romani con i loro
lenzuoli e corone di alloro.
Il paraculissimo gestore, leggendo sui nostri visi la
frustrazione per non aver raggiunto l‟obiettivo che sembrava
ad un passo, ci fornì la consolazione di un premio di
consolazione che gli dava la possibilità di liberare la propria
cantina di alcune bottiglie che giacevano lì da tempo
immemore.
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Cynar, Rosso antico e Maraschino furono consegnate
con cerimonia solenne al nostro front man che si affrettò a
condividere con la band “l‟ambito bottino”.
La soddisfazione non era ai massimi livelli, ma, dopo i
primi momenti di frustrazione e di recriminazione verso la
giuria incapace di giudicare, passò il concetto che « un
premio è un premio e va onorato» cosicchè, nel viaggio di
ritorno verso casa, a piedi e continuando a proporre il nostro
cavallo di battaglia musicale a tutti gli abitanti lungo il
tragitto, le bottiglie ebbero il loro ben servito.
Inutile dire che la scarsa abitudine all‟alcol ed il tenore
alcolico non proprio moderato delle bottiglie, resero un po‟
più sguaiato del normale il rientro a casa, a parte gli ultimi
cento metri.
Avendo il (giustificato) sospetto che mia mamma
potesse vedermi dalla finestra mentre barcollavo per strada,
mi diedi un certo contegno: sguardo su un punto fisso e passi
allineati... e funzionò! Se si escludono sporadici colpi di
genis con conseguente risata demente, ma dalla finestra del
quarto piano e con il buio, non era facile capirlo.
Arrivato in casa mi presentai, senza togliere gli
occhiali da sole e nemmeno il cilindro rosso, a mia madre e
mio fratello che aspettavano il mio arrivo con una “giusta”
dose di apprensione.
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« Vai a farti il bagno, ho già preparato la vasca con
l‟acqua calda» disse mia madre.
A quei tempi, a casa nostra, l‟acqua calda, non fluiva
allegra e gioiosa con la semplice apertura di un rubinetto,
quelli erano impianti avveniristici per l‟appartamento in cui
vivevamo, l‟acqua calda era generata: o da una pentola sul
gas (ma la quantità era giusta appena per una pastasciutta) o
da uno scaldabagno elettrico ad immersione che si metteva a
mollo nella vasca da bagno e in qualche decina di minuti
scaldava una quantità adatta alle abluzioni umane.
Dopo un po‟ di tempo, mia madre e mio fratello, non
vedendomi riemergere dal bagno, decisero di venire a vedere
che fine avessi potuto fare; aprirono la porta e ... (la suspence
è sempre d‟obbligo) eccolo lì il jazzista con trombone, ancora
vestito di tutto punto, che si auto-sghignazzava in faccia
davanti allo specchio del bagno senza essersi nemmeno tolto
il cilindro rosso.
Il fato benevolo, che accompagna sempre gli elfi di
Borganza, aveva voluto che il nostro eroe non si fosse
immerso nella vasca con annesso scaldabagno elettrico
(magari un elettroshock poteva rivelarsi un valido rimedio
contro le ciucche, ma è meglio non sperimentare).
Ripulito alla meglio, mi misero a letto, ma tutto il
mondo girava, l‟armadio passava in continuazione come chi
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perde la strada nelle rotatorie e le percorre a ripetizione in
cerca dell‟ispirazione... mai più eh! Mai più!
Fino alla prossima volta... Sicuramente mai più
maraschino, mi fa schifo ancora adesso anche nei dolci...
I buoni propositi sono fatti per essere disattesi, si sa,
altrimenti si contribuisce a lastricare la strada per l‟inferno
che, invece, deve essere fangosa e disagevole. Quindi giunto
l‟autunno (ma potrebbe essere anche quello ancora
successivo), dopo che tutte le uve erano state vendemmiate,
nelle cantine si pensava a fare il vino nuovo e la manodopera
non era mai abbastanza.
Quindi l‟invito del mitico Modesto, quello che era stato
in Argentina e ne era stato stregato, prima da Ketty, che
aveva sposato, poi anche dal presidente Juan Domingo Peron
del quale soleva dire: « Chiel si cu l‟era „n gran hombre!»
(Lui sì che era un gran “hombre” ndt), fu accolto con molto
favore da due baldi elfi pieni di buona volontà.
Il lavoro del cantiniere è faticoso e necessita di
frequenti pause ristoratrici altrimenti, i lavoratori, non danno
il rendimento migliore. Quindi tra una cesta d‟uva da
schiacciare e l‟altra bisognava prendere coscienza di quello
che il nostro lavoro avrebbe prodotto e, poi, Modesto si
sarebbe offeso se non avessimo assaggiato ogni tipo di ben di
Dio prodotto negli anni precedenti.
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Per ultimo, dopo aver finito di schiacciare l‟uva, ci fu
offerto il caffè e, per non raffreddare la bocca, uno
spettacolare pusa-caffè che diede il colpo di grazia.
Di positivo c‟era che, per tornare a casa, il mezzo
utilizzato era il classico “cavallo di San Francesco”, per cui
non eravamo pericolosi per noi e per gli altri; in ogni caso
quel tratto di strada andava fatto e non era per niente facile;
tanto per cominciare il senso dell‟orientamento non era più
completamente settato sulle coordinate giuste per il ritorno a
casa, poi era buio e i lampioni “doppi” che vedevamo
facevano sembrare un luogo alieno quello che stavamo
percorrendo.
Quindi era necessario stare molto attenti a non
perdersi, ma, essendo in due, ci saremmo riusciti senz‟altro.
La fortuna (che aiuta gli audaci) ci venne incontro e, con
tempi che non si possono nemmeno calcolare, arrivammo in
vista della casa del mio compagno di avventure che abitava
cento metri prima di casa mia.
A quel punto, però i pericoli aumentavano a dismisura,
come avrei potuto non perdermi nei cento metri da solo che
dovevo percorrere? La logica della ciucca allegra venne in
nostro soccorso e ci ispirò la soluzione ideale: Paolo (questo
il nome del mio co-avventuriero) mi avrebbe accompagnato a
casa, così eravamo a posto.
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Detto, fatto. Arrivati incolumi davanti al mio portone.
Adesso, però, Paolo doveva tornare indietro e, benché
avessimo già visto la strada, non era affatto sicuro che in
senso contrario fosse la stessa cosa, quindi era necessario che
anche lui fosse accompagnato per evitare i rischi.
L‟andirivieni durò per qualche volta; nessuno dei due
avrebbe permesso all‟altro di mettersi in pericolo senza
l‟adeguata scorta (Elfi, cavalieri senza macchia), ma si
imponeva una soluzione per evitare di dormire a metà
strada... metà strada, questa era la soluzione. Ci
accompagnammo sino ad un punto dal quale fosse visibile sia
il mio portone che il suo e dopo le mille rassicurazioni di rito,
ci lasciammo per una buona, lunghissima notte di armadi che
gironzolavano per la camera.
Si dice che dopo una sbronza si dimenticano le cose, in
un certo senso è giusto, si dimentica come ci si sente vuoti e
stupidi il giorno dopo, con la testa pesante, l‟alito peggio e la
verve di una pianta finta. Così ci si ricade, magari non subito,
perché non è facile affrontare i rimbrotti dei genitori che
sicuramente sono comprensivi, ma il troppo stroppia e quindi
bisogna darsi una regolata. Poi bere qualcosa di buono non
implica necessariamente ridursi all‟incoscienza, però ci sono
occasioni in cui la situazione scappa un po‟ di mano e la mia
si presentò una sera d‟estate.
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Come faccio a sapere che era d‟estate? Ve lo spiego
dopo.
Era il tempo in cui si facevano le feste a casa. Bastava
che qualcuno del gruppo avesse la casa libera e i genitori non
troppo rigidi e, in men che non si dica, la casa era invasa da
persone, piatti di ogni tipo di cibarie e da bottiglie e
bottiglioni razziati da ogni cantina.
Assaggia questo, senti che buono quello, questo l‟ha
fatto mio padre con l‟aiuto di due personaggi che poi si
devono essere persi in un buco nero tra la casa di uno e
dell‟altro...
Insomma, bevi tu che bevo anch‟io e, alla fine, quando
si decide di uscire e di andare nella famosa discoteca della
festa di carnevale (a piedi), i nostri soliti due fenomeni
sbagliano la porta di uscita e infilano i loro corpi traballanti
nell‟armadio dell‟ingresso. Il buio improvviso e lo spazio
angusto non turbano i nostri due eroi che, dotati della ciucca
allegra, cominciano a ridere come due dementi fino a che una
mano pietosa (quella del padrone di casa) non li libera dalla
prigionia.
Ora vi svelo come mai mi ricordo che era estate: dalla
casa del nostro amico sino alla discoteca, c‟era un breve tratto
di strada completamente sterrata che attraversava alcuni
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campi che, quell‟anno, erano coltivati a grano e, il grano, era
quasi maturo.
Non so cosa ci avesse consigliato di fare il nostro
navigatore satellitare interno; probabilmente doveva essere un
bel « fra trenta metri svoltare a sinistra» perché noi,
obbedienti come non mai (è proprio il caso di dirlo) ci
affrettassimo ad obbedire andando ad infilarci come giovani
cinghiali proprio dentro il grano quasi maturo.
Il risultato ci fu chiaro solo il giorno dopo con la luce
del sole... chiedo scusa ufficialmente al contadino per lo
scarso raccolto di quell‟anno, ma mi appello all‟incapacità
cognitiva temporanea del nostro navigatore...
In ogni caso, dopo aver girovagato come Ulisse nel
Mediterraneo (senza nemmeno uno spaventapasseri con un
occhio solo a cui chiedere informazioni), giungemmo
finalmente all‟agognata discoteca.
Furono sicuramente le luci strobo, che ti tolgono un po‟
il senso della posizione; la palla ricoperta di frammenti di
specchio che gira incessantemente (come l‟armadio in
camera); la cortina di fumo che all‟epoca aleggiava nelle
discoteche e che, all‟uscita, ti faceva sembrare uno speck
trentino affumicato al punto giusto, ma quella sera proprio
non riuscivo a stare chiuso là dentro nonostante “Another one
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bites the dust” dei Queen o “Enola Gay” degli OMD sparati a
palla (o forse anche a causa loro).
Tutto mi ribolliva dentro come in un tino a settembre e
qualcosa sembrava avesse urgenza di venire fuori, quindi mi
allontanai verso il parcheggio per lasciare che ciò che doveva
fuoriuscire fuoriuscisse.
Anche qui, il navigatore satellitare dovette darmi degli
ordini controversi tipo: « alla prima occasione liberarsi del
carico» perché non arrivai nelle aiuole che circondavano il
parcheggio, ma sganciai la bomba direttamente sul cofano di
un‟auto in sosta.
Sollevato e soddisfatto mi sistemai sotto il porticato
davanti all‟entrata della discoteca per godermi la tiepida aria
serotina. La gente continuava ad entrare ed uscire dal locale
e, ad un certo punto, un tale, accompagnato dalla morosa, si
avviò verso il parcheggio con l‟evidente intento di recuperare
la propria macchina ed andarsene.
Non passarono due minuti dal suo transito davanti a
me, che lo vidi tornare indietro con aria decisamente
imbufalita e proferendo frasi che non oso ripetere ancora ora.
Il signore in questione era tristemente noto con il
soprannome di “Lucifero”. Il suo nomignolo e l‟aspetto fisico
devono far pensare ad una persona mite e ragionevole...
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infatti si diceva di quel signore che avesse la capacità di
abbattere un toro con un pugno...
« chi è stato quel @#§#@*+* (riempite voi gli spazi)
che mi ha vomitato sulla macchina ... lu mas (lo uccido, per i
non piemontofoni)» mi urlò in faccia come se io non potessi
non aver visto chi era l‟autore di quello scempio. Questa
scena ebbe su di me l‟effetto di un litro di caffè amaro con il
limone, assunsi un‟espressione sobria che non avrei mai più
avuto nemmeno dopo aver bevuto solo acqua per due
settimane (questo a detta dei miei preoccupati amici lì
intorno) e dissi di essere appena uscito e di non aver visto
assolutamente niente.
Non avevo nessuna voglia di sperimentare il famoso
pugno ammazza-tori ... ero ancora un vitellone....
Venne poi il tempo della patente ed essendo io uno dei
primi ad averla presa e quindi colui che portava frotte di
amici in giro con la Simca di papà, divenni responsabile e
lasciai perdere gli esperimenti di enologia applicata
all‟utilizzo dei mezzi di trasporto diversi dai piedi.
Al sabato sera, però, insieme al solito gruppo della jazz
band, si prese l‟abitudine, dopo la discoteca e, per chi
l‟aveva, aver riportato a casa la morosa, di andare a passare la
nottata nella casetta di legno in mezzo al nulla dei genitori di
Franco. Lì, parcheggiata l‟auto che non andava più toccata,
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preparavamo quantità industriali di patatine fritte, pasta aglio
olio e peperoncino, carne alla griglia e, una volta, persino un
“porceddu” sardo, accompagnando sempre il tutto con i
migliori risultati delle cantine di famiglia.
Le canzoni dei Bravom di Langa e della tradizione
popolare piemontese erano la colonna sonora di ridanciane
gare di mangiata di pizzette e di seriorissimi discorsi
filosofici sul senso della vita senza un buon bicchiere di
rosso.
Si trascendeva nella meditazione, per cui, uno di noi,
riuscì a dormire, dentro il sacco a pelo, sui rami del gelso
dietro casa, in una posizione zen che nessuno, da sveglio e
sobrio, riuscì a riprodurre; ci si sfidava in gare di bob nelle
quali vinceva chi cominciava a frenare più tardi... talmente
tardi che uno di noi (indovinate chi) non frenò affatto e fu
costretto a saltare dal bob ed aggrapparsi ad un albero per non
finire nel burrone in fondo alla discesa...
Ma forse queste cose non avvenivano per effetto
dell‟alcol, forse era solo l‟incoscienza di un età in cui non si
capisce che non c‟è bisogno di alcol per avere la ciucca
allegra, la si ha dentro. Si è un po‟ come Obelix, si è caduti
dentro l‟allegria e la spensieratezza da piccoli e nessun
“additivo chimico” la può aumentare. Così si sta anche alla
larga da Lucifero e dai suoi pugni.