FIABE DI BORGANZA

FIABE  DI  BORGANZA

FIABE DI BORGANZA

Mondo incantato quello di Borganza, la realtà scorreva in una dimensione paragonabile alla sabbia tra le dita: onirica ed impalpabile.

Un mondo di fiaba e, come in tutte le fiabe che si rispettino, l’inizio è sempre spostato indietro nel tempo, in quell’epoca che non sappiamo definire,

che si trova a metà strada tra la preistoria e “Blade runner” e che viene definita con il famigerato << C’era una volta >>.

E quindi....

C’era una volta, in un paese lontano, lontano, un piccolo luogo verde, ad un passo da un vivace fiume di montagna.

Era un luogo abitato da una comunità raccolta e coesa, operosa e allegra, con tanti bambini che scorrazzavano e schiamazzavano, liberi e rumorosi.

Non erano bimbi normali, no, non esistevano a

Borganza. Ognuno di loro aveva qualche particolarità che lo rendeva unico. Era probabilmente a causa della leggenda secondo la quale, gli abitanti di

Borganza, discendevano da elfi del deserto (i famosi Jin) che erano giunti fin lì a seguito delle migrazioni dei famigerati Saraceni che colonizzarono quei luog nei bui secoli del Medioevo.

Tutto cominciò una mattina di prima estate quando il sole aveva già fatto capolino dai monti ad est; l’atmosfera era calda, ma non ancora così tanto da

giustificare un bagno in Tanaro, alla chiusa.

C’era però la temperatura ideale per un bel giro su due ruote e fu così che due degli elfi di Borganza tirarono fuori dai garage i loro splendidi velocicli.

Entrambi rossi, corredati da un dispositivo che trasformava il silenzioso due ruote in un rumoroso simulacro di motocicletta.

Era sufficiente applicare ad una delle forcelle una cartolina, una di quelle che tutte le estati si ricevevano da Laigueglia dove qualche elfo andava a

verificare se l’acqua del mare era sempre diversa da quella del Tanaro.

Bastava fissarla con una molletta da stendere in modo che, sbattendo contro i raggi della ruota, producesse un rombo, un po’ più simile ad una

pernacchia (prrr) che allo scarico di una moto, ma l’importante era fare un po’ di casino.

Era evidente che quel baccano potesse non essere gradito a tutti gli abitanti di Borganza, ma per Vinbert

e Mamas, questo era l’ultimo dei problemi.  Vinbert era l’espressione stessa del velociclismo; l’attrezzo non aveva segreti per lui che ne frequentava con

disinvoltura aspetti e nomenclatura tecnica ed era in grado di smontarlo e rimontarlo forse anche con gli occhi bendati.

Nati all’incirca nello stesso secolo (di più dell’età degli elfi di Borganza non è dato sapere), quando

cavalcavano un velociclo, il loro limite era il cielo; nche se, sovente, Mamas, esclusivamente per motivi di ricerca scientifica, saggiava la consistenza

del terreno, scoprendo, in ogni occasione, che questo era più consistente e resistente della pelle delle sue ginocchia.

Ed eccoli sui loro cavalli d’acciaio, due ippogrifi che permettevano di volare attraverso lo spazio, sfidando il tempo, quello atmosferico, quello cronologico ed anche le ire di qualcuno degli abitanti del luogo.

Infatti, acquattato nell’ombra, con gli occhi vigili e malevoli, si nascondeva l’orco Rumàn.

Basso, tozzo ed iracondo come solo gli orchi sanno essere, mostrava un’intensa avversione verso i

giovani elfi, ai quali non faceva mancare le sue rumorose rimostranze ed i suoi feroci scherzi, quale

punizione per qualsivoglia presunta marachella dei  nostri giovani eroi.

Ovviamente, a suo giudizio, anche solo il fatto di  esistere, costituiva un grave disturbo alle sue attività e meritava un’elaborata rappresaglia. 

L’orco in questione era perennemente accompagnato da

Hoso, un bigio asinello che << rosicando cardi >> tentava di dispensare a Rumàn un po’ della propria asinesca pazienza.

Lui amava i giovani elfi, i quali, riconoscendo il suo amore, non lesinavano i regali: ora una carota, ora una succulenta mela (quasi sempre sottratte all’orco

dalle sue coltivazioni) che Hoso apprezzava con solenni scosse del capo e gioioso sventolare dellelunghe orecchie.

Il fatto che il ciuco non si esprimesse nella lingua degli orchi complicava un pochino la sua possibilità di manifestare il proprio dissenso verso le azioni biecheperpetrate da Rumàn nei confronti degli elfi. A nulla  serviva il tirare indietro le orecchie fino a toccare la schiena o lo spazientito raglio; questi se

lasciavano l’orco completamente indifferente edeterminato nel perseguire i suoi oscuri disegni.

L’obiettivo principale era solitamente uno deglioggetti dell’attività elfica; quello di quel giorno sitrovava non molto lontano da lì....

_ ;_;_;_

Erano quindici giorni che ci lavoravano tutti quanti senza distinzione d’età o di estrazione elfica. Ognunocon un compito ben preciso determinato dalle proprie caratteristiche fisiche o dalle varie capacità manuali.

Utilizzando la potenza di MASSEN, il più grosso degli elfi di Borganza che fin dalla più tenera età dimostravaspiccate capacità di comando che poi ha messo in pra- tica diventando Gran Mogol della comunità e la versa- tilità di MAPIER, elfo multifunzione che come per in- canto sapeva trasformarsi in qualunque cosa fosse  necessaria. Serviva un cameriere? Ecco Mapier con vassoio e farfallino. Era di un elettricista che c’era

bisogno? Con forbici e cercafase sbucava lui e dava corrente; se poi dovevi imbiancare una parete bastava schioccare le dita e magicamente rulli e

pennelli entravano in azione. Anche nell’arte culinaria nessuno batteva Mapier che creava ricette dal nulla anche non avendo gli ingredienti “ufficiali”.

Persino SIMCAR e SANCAR, due elfe o meglio, elfi femmina, stranamente ben accette e partecipi alla

maschilista cricca dei giovani elfi, partecipavano: da- vano quel tocco di grazia alle varie attività, anche se,

alcune loro iniziative, come voler mettere le tendine

alle finestre della capanna, venivano brutalmente cas- sate dalla gretta parte maschile.

Tutti insieme, uniti come acqua e vino, come pane salame, come le orecchie con il cerume..., cominciando dalla ricerca dei materiali adatti: pietre

per la base, tavole e travi per le pareti e fronde per la copertura, costruivano la capanna, sede delle loro attività associative, ovviamente estive.

Gli elfi femmina si preoccupavano di procurare gli ele- menti estetici (escludendo ovviamente le tendine): cu- scini per sedersi e vivande. Perché era ovvio che, nella capanna, si consumassero anche i pasti, soprattutto merende (da qui le varie “compagnie di merende”) che, annaffiate dalla fresca acqua di Borganza, finivano invariabilmente con la frutta... La quale,invariabilmente, proveniva dai frutteti dell’orco Rumàn...

Il quale, invariabilmente, metteva in atto le sue misure di ritorsione.

Quel giorno, Vinbert e Mamas, avevano “deciso” di essere più rumorosi e molesti del solito o forse, più semplicemente, Rumàn era meno disponibile del

consueto , fatto sta che le sue ire si scatenarono, improvvise e devastanti come un uragano ai Caraibi

(non che gli elfi sapessero dove si trovano i Caraibi, ma, in fondo, neanche Salgari c’era mai stato).

Com’è tipico per ogni orco che si rispetti, Rumàn scelse con cura l’ora dell’attacco.

Nelle oreantelucane dell’alba, quando tutti gli elfi sta- vanoancora trasformando la realtà in sogni, con passo pesante e assoluta noncuranza, 

trascinando con sé il recalcitrante Hoso che intuiva, asinescamente saggio, le intenzioni del suo padrone, ma non voleva esserne parte.

Nessuna ragione avrebbe, però, smosso l’orco dal suo intento criminoso: si avventò come una furia sulla capanna, così amorevolmente costruita, riducendola ad un ammasso informe, polveroso e desolato.

Qua e là, tra le macerie, occhieggiavano cuscini e stoffe che avevano dato quel tocco gentile all’ambiente. 

La luce impietosa del sole, che le fronde del tetto avevano sempre attutito e rinfrescato, metteva a nudo lo scenario apocalittico.

Fu quando le corolle dei fiori si dischiusero finalmente al nuovo giorno e, come tante bolle di sapone, andarono a dissolversi le attività oniriche dei

piccoli elfi, che la realtà spalancò le sue fauci fameliche e mise in mostra l’opera scellerata.

Gli altissimi lamenti e i pianti disperati dei primi intervenuti sul luogo del delitto, richiamarono, in breve, l’intera comunità che constatò lo scempio; ma

il piagnisteo e la sceneggiata non fanno parte del DNA della comunità elfica di Borganza.

Dopo i primi istanti di smarrimento e di indignazione, scatta il desiderio di ricostruzione di tutto quello che

non c’era più, ma che doveva risorgere << più bella e più superba che pria – Bravo – Grazie >>.

Insieme alla voglia di ricostruire scatta, però, anche un desiderio di rivalsa, di vendetta verso chi aveva perpetrato tutto ciò.

Riunione. Tutti gli elfi intorno alle macerie a confabulare e a cercare i mezzi tremendi ed inesorabili per punire il fedifrago; ma i pareri non

erano concordi, la comunità degli elfi non amava la violenza. Un conto era razziare le ciliegie, un altro era usare la forza, sia pure nei confronti di un orco.

Ma come potevano dei poveri, piccoli elfi contrastare la potenza distruttiva di un simile energumeno; come dimostravano le macerie della capanna era piuttosto pericoloso; Rumàn era un tipo violento, vigoroso e, rispetto agli elfi, spaventosamente grosso e non disdegnava l’uso di attrezzi agricoli per dare la caccia ai giovani nemici.

 Non era di molto tempo prima l’episodio in cui, l’orco, aveva inseguito con un forcone i piccoli fedifraghi, rei di aver “assaggiato” alcune fra- gole nell’orto.

No, una simile evenienza era assolutamente da evitare.

Fu così che, dopo ore di dubbi, elucubrazioni e discussioni più o meno accese, fu partorita la  ritorsione delle ritorsioni, un qualcosa che Rumàn

non avrebbe più potuto dimenticare.

Il piano, però, per essere realizzato, aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno di molto particolare, qualcuno che frequentemente aveva dimostrato simpatia nei

confronti dei giovani elfi e che non aveva particolari predilezioni per l’orrendo orco. 

Per avere quel prezioso appoggio occorreva, però, un’azione diploma- tica di altissimo livello, perché, benché gli elfi non gli

fossero sgraditi, la loro richiesta particolare necessita- va di un grande, dispendioso lavoro da parte sua.

Dopo un breve consulto fu dato incarico ai due elfi che, più di tutti, conoscevano il personaggio e che avevano sviluppato con lui una certa confidenza.

Vinbert e Mamas inforcarono i loro velocicli, dai qualiavevano precauzionalmente rimosso le cartoline rumorose per evitare di essere identificati ed

inseguiti e filarono come due furie a svolgere la missione che era stata loro affidata.

L’Amico degli animali era così chiamato, non perché avesse nobili frequentazioni con il WWF o perché avesse atteggiamenti o abitudini volte alla

conservazione della natura nel suo complesso, ma soltanto perché svolgeva la curiosa attività di raccogliere le vipere da portare, dietro compenso,

agli alchimisti del paese per l’estrazione del veleno che veniva utilizzato per preparare una potente pozione che proteggeva dai nefasti effetti degli

incontri con gli infidi rettili; in due parole: il siero antivipera.

Com’è possibile intuire, il nostro, non era un tipo facile da convincere a mollare il suo intenso  redditizio lavoro per un atto di inutile eroismo.

I due elfi, tenaci e cocciuti, tanto lo blandirono e tanto cercarono di convincerlo che la sua opera sarebbe stata celebrata negli annali elfici per i secoli a

venire, che alla fine ottennero un formale impegno ad appoggiare la loro giusta causa.

 

 

In fondo, anche l’Amico degli animali era provvisto di un cuore e anche lui disponeva di una capanna in rivaal Tanaro, dove conservava le sue prede, che avrebbe potuto ingolosire l’orco Rumàn in una delle sue distruttive scorribande.

Fu così che si mise in moto il meccanismo finementepunitivo escogitato dagli elfi.

La potente magia del nostro eroe, però, non poteva avere successo se non fossero intervenuti alcuni complici per favorirne gli effetti

Era innanzitutto necessario creare un diversivo che di- straesse Rumàn per permettere che il complicato rito magico potesse compiersi.

Partirono Vinbert e Mamas con i velocicli, dopo aver rimesso le cartoline rumorose, eccoli sfrecciare nei dintorni della tana dell’orco, che, manco a dirlo, si

precipitò a dar loro la caccia armato dall’immancabile forcone, pronto a punire l’insolenza.

Non appena fuori trovò però ad aspettarlo Frangul, el- fo di chiara origine musicale, con notevoli capacità di corsa, anche se colorato di una tinta nerazzurra che ne inficiava le capacità mimetiche in mezzo agli altri elfi, tutti tinti di uno sfavillante bianconero.

Frangul era notevolmente dotato di senso pratico e di una non comune sensibilità verso gli animali per la quale era giunto persino a tentare di convincere uno sciame di vespe a produrre miele per lui (inutile dire che le vespe opposero una fiera resistenza), Frangul si muoveva rapidamente per l’orto e Rumàn, accecato dall’ira, prese a rincorrerlo urlando come un ossesso.

Nonostante la sua mole, però, non riusciva a raggiun- gerlo; in più, nel pieno dello sforzo incappò in uno strano allagamento, mai visto prima, che aveva creato Vinizius, elfo dedito alle oscure pratiche idrauliche, che incanalava liquidi e li portava ad ebollizione mediante procedimenti alchemici. 

A lui era chiaro,come a pochi altri, che l’acqua scorre sempre in giù, anche quella del Po, sia pure in taluni casi non incanalata, ma traspor- tata in ampolle di brillanti colori verdi.

Vinizius aveva predisposto la trappola deviando la bia- lera a fianco al cimitero vecchio.

L’espediente rallentò l’orco, ma non bastò a fermarlo.

Rumàn continuava, imbufalito, a dare la caccia ad ogni elfo e non valsero a dissuaderlo dai suoi turpi propositi le trappole fatte con le liane da Janbab, tipico elfo dei boschi, di natura arboricola, dedito alla coltivazione delle erbe aromatiche.

Neppure l’attacco da parte degli uccelli scatenati da Margul, il più animalista del gruppo degli elfi, sortì effetti particolari.

Si dice che Margul, avendo sentito raccontare di un santo che lo faceva, parlasse agli uccelli, ma proba- bilmente questi non gli rispondevano, visto che veni- vano puniti con la reclusione in gabbia e ore e ore di lezione in stretto dialetto ormeese.

I volatili, comunque, ricoprirono l niente; nemmeno le torte in faccia che Mapier, il cuo- co, factotum degli elfi e Massen, il Gran Mogol, gli

scagliarono dalla sommità degli archi della ferrovia lo bloccarono; Rumàn era una furia.

Nonostante ciò il piano degli elfi si stava per compiere.

Il mostro, nel suo parossismo, si era allontanato dalla sua tana ed aveva lasciato solo il povero Hoso.

Fu così che, l’Amico degli animali, poté avvicinarsi indisturbato al covo dell’orco e, predisposto lo strumento (una bacchetta da rabdomante), intonò

con voce stentorea la formula magica che aveva preparato per l’occasione.

Con gesti ampi delle braccia disse:

<< Somma d’lungu chizì,n’omma pau du babau. Gazagnoa parau, cui na zona ‘n t’na man, l’otra giurda ma fronca. Vorda alau checche fomma. A

smaia na gottaspuzia ma n’le pà !!! >>

Finita di pronunciare la formula, accaddero cose meravigliose: il bastone da chiromante vibrò, si mosse convulso come farebbe una vipera (non a

caso) e da esso sprizzarono scintille, fiori di pesco  foglie d’alloro. L’atmosfera pareva di melassa, tutti   movimenti sembravano rallentati all’infinito e, come in una scena al replay, Hoso, il somaro, si schiantò al suolo come se fosse stato fulminato.

Per un attimo gli elfi rimasero con il fiato sospeso,

volevano bene all’asino che, in fondo, aveva sempre dato l’impressione di non approvare i metodi di Rumàn, ma il piano escogitato doveva compiersi.

Si riscossero e, rapidi e silenziosi, caricarono l’animale sulla barella appositamente costruita e lo portarono nel loro nuovo covo.

Inutile dire che l’orco, quando, dopo molti minuti passati a cacciare le ombre degli elfi che credeva di vedere ovunque, ritornò alla propria tana, manifestò

la propria ira, acuita dalla frustrazione per le prese in giro subite, con strepiti, urla spaventose, versi animaleschi e terribili minacce agli elfi che aveva

capito essere i responsabili dell’assenza di Hoso.

Calmatosi un po’, cominciò a perlustrare i dintorni  per trovare l’animale che non sapeva fosse stato portato via, ma presumeva fosse stato fatto fuggire

per dispetto.

 Non ottenendo risposta dal somaro, cominciò, in stato confusionale, a vagare per campi e valli chiamando Hoso e piangendo la propria misera

condizione. 

Non si rendeva conto della distanza che stava percorrendo e, piano, piano, si smarrì e non tornò mai più a Borganza.

Agli elfi, un po’ venne il dubbio che forse, in fondo in  fondo (forse troppo in fondo) anche Rumàn avesse

un cuore, ma la gioia per il risultato raggiunto prese il sopravvento su qualunque altra considerazione.

Finalmente l’orco non c’era più; si poteva ricostruire la capanna, si poteva andare con i velocicli, giocare a

palla, biglie, archi e frecce senza essere perseguitati ogni volta dalle ritorsioni e dalle minacce.

.... E Hoso? Dov’era finito quell’essere al quale sembrava solo che mancasse la parola?

Non si sa esattamente cosa ne sia stato di lui, non sivide più un simile quadrupede a Borganza, ma, nei giorni successivi alla scomparsa di Rumàn, tra gli elfi comparve una figura che, fino ad allora, non si era mai vista nei dintorni.

Era uno strano personaggio, si diceva fosse cugino di uno degli elfi, aveva una fisionomia vagamente equina, orecchie leggermente più lunghe della media

ed una contagiosa, allegra, ragliante risata.