La locanda del Gallo d'Oro

I due amici si fermarono, a sera avanzata, alla Locanda del Gallo d’Oro, sulla via per Milano.
“Quello è il posto di cui ti parlavo e dove potremo pernottare” disse Spaccamontagne al compagno, additando da lontano una sagoma scura, appena rischiarata da un quarto di luna adombrato da nuvole.
A guardarla da lontano non dava affidamento alcuno, poiché anche nell’oscurità mostrava l’assoluta mancanza di pretese, nascosta com’era in un meandro di steccati, terrapieni e cataste di legna. Da vicino era ancora peggio: scalcinature e buchi, di varia forma e dimensione, dovuti ad incuria e ad intemperie, davano al muro l’aspetto di un vecchio bastimento fantasma alla deriva.
Era a due piani, ma non vi erano o, forse, al buio non si vedevano, scale che portassero al piano superiore.
I due smontarono di sella e si accostarono all’uscio; dall’interno provenivano schiamazzi e grasse risate.
Raniero batté col piede contro la porta ed un attimo dopo sull’uscio comparve il faccione tondo e gioviale dell’albergatore.
“C’è un letto per me ed il mio amico?- domandò il ragazzo, senza preamboli - Ed un posto nella stalla per i cavalli?” aggiunse, dopo essersi schiarito la voce.
L’uomo lo quadrò da capo a piedi ed anch’egli si schiarì la voce, poi rispose:
“Entrate. Qui non manca mai un buon letto per una buona borsa.”
“Paghiamo con oro.”
Raniero gli mise sotto il naso un ducato; anche nella penombra appena rischiarata dalla fioca luce proveniente dall’interno, le narici dell’oste fremettero.
“Poche chiacchiere, oste. - interloquì Spaccamontagne in tono irritato; avevano viaggiato tutto il giorno, con qualche sosta per far riposare i cavalli, ed erano stanchi ed affamati - E dateci del buon vino.” Aggiunse in tono perentorio.
“Subito, signori. Subito.” capitolò l’altro, con un largo sorriso sulla faccia..
Più largo che lungo, l’oste si scostò per lasciarli entrare.
Nonostante la mole, si sorprese a pensare Raniero, seguendolo, era straordinariamente agile e le carni, grevi come montagne, ondeggiavano allegramente ad ogni passo.
L’interno del locale, passata la prima impressione negativa, non era poi così male: un po’ fumoso ma piuttosto ampio e confortevole. Era disseminato di tavole e panche e sul fondo c’era una grande scala in legno che portava a quelle che dovevano essere le camere, al piano superiore.
Nonostante l’ora, c’era un discreto movimento di persone, tutta gente del popolo, raccolta in allegria attorno a boccali di vino semivuoti.
I due amici notarono un tavolo discosto dagli altri, apparecchiato con piatti e bicchieri di gran qualità e corredato da una sedia, unica: quasi un simbolo di nobiltà in mezzo a tutte quelle panche da contadini.
Raniero, però, suggerì di prendere posto ad un tavolo vicino alle scale: postazione eccellente per avere tutto sotto controllo. Soprattutto l’uscita.
L’oste riprese il suo posto dietro al banco, aiutato da una donna,  forse sua moglie, non meno grassa di lui, che andava avanti ed indietro dalla cucina, situata sul retro; entrambi guardavano continuamente verso le scale.
“Dev’esserci qualche signore in arrivo. - osservò Spaccamontagne – Guarda quei due come sono eccitati… – il giovane ex-bandito accennò col capo in direzione dell’oste e della moglie - .. il mio stomaco è lasciato a reclamare. E il tuo, Raniero, cosa fa?”
“Gli tiene buona compagnia.” assentì il ragazzo.
“Ehi, ostessa. - gridò il brigante - La barba sta invecchiando!... Abbiamo fame.”
“Subito, signore. Vi servo subito. - rispose quella - La buona cucina, però, vuole tutto il suo tempo.” aggiunse, sempre  muovendosi per la stanza e facendo fluttuare, al ritmo delle parole, tutta la propria opulenza tanto disarmonica quanto allegra, che induceva irresistibilmente a sorrisi di allegria.
In effetti, simpatico ed allegro, era anche il faccione a luna piena, sorridente e gioviale.
Raniero, infatti, sorrise ed era la prima volta, da lungo tempo.
“Per gustare – riprese con sussiego la donna - un buon pasticcio di polenta e salsiccia, miei cari messeri, occorre...”
Un rumore di ferri proveniente dalle scale, però, le spezzò le parole sulla bocca, costringendola a voltarsi.
Si voltarono tutti.
Sulle scale era apparso un cavaliere, che doveva essere un gran signore, a giudicare dalle vesti e dal codazzo di servitori che lo seguiva.
Indossava un mantello nero trattenuto da una borchia sulla spalla sinistra sopra una tunica rossa. In testa, su una folta capigliatura castano- dorata, portava un copricapo cilindrico che gli copriva anche parte della fronte; dal fianco gli pendeva una spada dall’elsa d’oro massiccio finemente lavorata, opera certamente di uno dei grandi artisti lombardi. 
L’ostessa dimenticò Spaccamontagne ed il suo compagno; l’oste, fece altrettanto. Entrambi si profondarono in inchini, cominciando a girare intorno alla persona dello sconosciuto, come ad una macina di grano.
Raniero guardava la scena tra il divertito e l’irritato, tutti gli altri in silenzio rispettoso e reverenziale, ma l’amico  Spaccamontagne, cui lo stomaco continuava insistentemente a borbottare, intervenne spazientito.
“Oste. Avete deciso di farci morire di fame?”  replicò, battendo un pugno sul tavolo.
Il gran personaggio, lo sconosciuto cavaliere, lo degnò appena di uno sguardo, l’oste, invece:
“Vai a servire  quei due messeri.” ordinò l’oste ad una servetta, quella pure grassottella, bianca e dorata come una pagnotta.
“Monsignore.- la voce di uno degli sgherri del cavaliere raggiunse i due amici alle spalle- Volete che dia una lezione a questo ribaldo?”
“Vossignoria! - seguì subito la voce dell’oste - La vostra nobiltà è al di sopra di queste faccende.”
“L’arguzia e la facondia del contadino!” pensò Raniero con un sorriso; sorrise anche il cavaliere e tutto tornò tranquillo.
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Consumata la cena, con buona pace di tutti, l’uno dopo l’altro, gli avventori lasciarono la stanza del convito. Anche Raniero e il compagno raggiunsero le loro camere.
Il buio scese su tutta la locanda, segno che anche il cavaliere si era ritirato.
Raniero, però, buttatosi vestito sul letto, non dormiva. Pensava. Aveva avuto poco tempo per farlo, ma i suoi pensieri furono presto interrotti da un tramestio proveniente dalle scale. Si alzò e si affacciò sull’uscio; Spaccamontagne era già nel corridoio,  pugnale in mano. Di corsa lo seguì, ma, raggiunte le scale, per la terza volta, la terrorizzante visione della Morte, frenò la sua corsa: seduta a cavalcioni sulla ringhiera delle scale, Comare Secca proiettava sui gradini la sua ombra inquietante.
“No! No! – gridò – Perché continui a perseguitarmi? Non puoi braccarmi continuamente come una preda.  Il Patto era chiaro!… Non puoi pretendere un dovuto che non ti è ancora dovuto… Un Patto è un Patto… Anche per te! Sei, forse, pentita di avermi risparmiato?… O… oppure non sei qui per me e… ”
  L’inquietante apparizione, però non gli permise di portare a termine la domanda: con un ampio gesto del braccio, la Morte fece pericolosamente roteare intorno alla propria figura la grande e rilucente falce d’argento.
Un sibilo sinistro fendette l’aria  e  la tagliò come un pezzo di stoffa; il ragazzo ebbe appena il tempo di piegarsi in avanti:  la falce gli passò sopra la testa.
“Oh, no! … Non è ancora tempo per la tua Falce di bere il sangue di Raniero.  Torna da dove sei venuta…. Ti chiamerò io stesso quando…” 
“Ehi! Con chi stai parlando? – una voce lo raggiunse dal fondo delle scale – Brrr.. che freddo! Non senti anche tu una folata di gelo?”
Raniero rialzò il capo e guardò di sotto l’amico Spaccamontagne; la ringhiera era vuota e il ragazzo respirò di sollievo.
“Che ti succede, amico? Sei stato ferito? – domandò l’amico facendo le scale a quattro gradini per volta – Perché sei piegato in avanti?”
Raniero fece l’atto di replicare all’amico, ma un grido proveniente dal basso, li costrinse entrambi a precipitarono giù per le scale, dove videro il cavaliere incontrato a cena  la sera precedente.
Era alle prese con tre individui del genere poco raccomandabile cui era appartenuto fino a poco prima anche Spaccamontagne.
“Ah! – pensò sottovoce Raniero – Ecco perché Comare Secca si aggira  qui intorno… cerca sangue per la sua Falce…”
“Cosa dici?” fece Spaccamontagne.
“Niente. Niente!… Resistete, cavaliere. - gridò, facendo pericolosamente roteare il suo pugnale, poi, nuovamente al compagno - Alle stalle! – disse -- Corri a vedere i cavalli.”
Spaccamontagne si precipitò fuori della locanda.
Poche stoccate bastarono a tenere a freno i banditi: Raniero e il cavaliere mostrarono d’essere entrambi ottimi spadaccini e quando giunsero i soccorsi, quelli se l’erano già data a gambe.
“Sai maneggiare la spada che è un piacere guardarti, ragazzo. - disse il cavaliere, rinfoderando la sua arma - Sei uno strano contadino, tu.”
“Questo posto pullula di strani contadini, cavaliere.” rispose Raniero; l’altro tese la mano guantata di ferro.
“Non conosco il tuo nome, ma stringo volentieri la tua mano.” sorrise; aveva un sorriso schietto e amabile, che gli addolcì l’espressione un po’ severa del volto.
“Ho un nome che non mi appartiene, signore, ma sono io pure onorato di stringere la vostra.”

La calma tornò sulla locanda e la notte trascorse senza altri incidenti;  il mattino primaverile spuntò sgombro di nubi e fresco di rugiada.
I due giovani si apprestarono a riprendere il cammino per Milano, ma l’oste li raggiunse nella stanza del convito con una lettera ed un dono da parte del misterioso cavaliere: il dono era la spada che Raniero aveva tanto ammirato e la lettera recava il seguente messaggio:
“Mio giovane amico, siete troppo fiero e nobile per essere un contadino. Non desidero penetrare un segreto che appartiene solo a voi. Vi faccio dono della mia spada, che braccio più degno non potrebbe impugnare e semmai un giorno aveste bisogno del mio aiuto, non avrete che da restituirmela.”
“Lo dicevo io che non eri un contadino.- esclamò Spaccamontagne alla fine della lettura - Ma chi è questo misterioso cavaliere?”
“Un uomo potente! - rispose il ragazzo - E’ il marchese di Ancona.”
“Francesco Sforza?… Il grande condottiero?” esclamò, con gli occhi fuori dalle orbite, l’incredulo Spaccamontagne.
“Chi sta parlando del marchese Francesco Sforza?” una voce ruvida ed autoritaria, alle spalle, li fece volgere tutti.
Era un Capitano di Ventura e la sua figura occupava l’intero uscio, tanto era gigantesca; lo seguiva un nutrito drappello di soldati e tutti, nella locanda, corsero incontro al nuovo arrivato, deferenti ed ossequiosi.
“Io, parlavo di Francesco Sforza.” rispose il ragazzo senza scomporsi.
Lo sconosciuto, dalla figura salda come una roccia, era un giovane sui venticinque anni. Un naso importante gli dominava la faccia dai contorni forti ed ostinati, bruciata dal sole; gli occhi erano di un intenso, caldo nero africano, mobili e vivaci. Era sicuramente una persona che ispirava grande rispetto e, ad accrescerne l’aspetto fiero, erano anche i modi decisi di chi è abituato al comando.
“A che pro ne parli, contadino?” domandò.
Guardandolo, Raniero pensò che un’occasione come quella richiedeva un’immediata decisione.
“Dicevo al mio compagno, - spiegò - che mi alletterebbe molto l’idea di diventare soldato e di servire il marchese di Ancona... Non è difficile, noi pensiamo, se si hanno buoni muscoli e se si sa maneggiare un’arma.”
“Vorresti, forse, misurarti con me?” abboccò l’altro, stuzzicato dalla sfida.
“Perché no!”
“La frusta ci vorrebbe per te, villano, non un’arma… ah,ah,ah...” seguì una grassa risata, che trovò immediatamente eco nella soldataglia che gli stava alle spalle.
“C’è forse differenza tra un villano ed un mercenario?... - lo provocò Raniero - Non sono entrambi servi di un padrone? Ma... non ti farai impressionare da un villano, spero… cavaliere!”
“Ah,ah,ah...- rise l’altro, sinceramente divertito - Sei sciocco e sprovveduto, ragazzo, ma hai del fegato e questo mi piace. Però, hai bisogno di una buona lezione.” e così dicendo, sfoderò la sua spada.
“La vittoria è una donzella assai vezzosa, ma molto capricciosa.” replicò Raniero, sfoderando anch’egli la sua arma: la spada appena ricevuta in dono dal marchese di Ancona.
“Quella spada... da chi hai avuto quella spada?” domandò l’altro, abbassando immediatamente la sua.
“Il marchese di Ancona. E’ un dono del marchese di Ancona.” rispose il ragazzo e l’oste, alle sue spalle:
“Sì, Vossignoria. – aggiunse - E’ un dono di vostro padre, il marchese di Ancona.” e gli mostrò la lettera.
Quel capitano era Tristano, figlio illegittimo di Francesco Sforza e Beatrice                   d’Este.