L'ATTIMO INCANTATO

L'ATTIMO INCANTATO

Dentro di sè  Fabio non   approvava    quella      trasformazione, quell’enorme mutamento. Quella non era la sua piccola Livilla.

Non era la bambina dolce e fragile. Non era l’amichetta dal sorriso caldo che scacciava l’inverno e richiamava il sole; dalla risata allegra e squillante da riconoscersi fra mille.

Partendo per la Giudea aveva lasciato un allegro fringuello sempre cinguettante e ritrovava, invece, uno di quegli splendidi cigni tristi,  malinconici e con la sola voglia di scappare chissà dove.

Quella che aveva  davanti era  una bellissima giovane donna. Una bellissima giovane donna taciturna e pensierosa. Lontana. Una bellissima giovane donna i cui silenzi lo stupivano e addoloravano. Tanto diversa dalla sua sorellina, la “Frittellina”, come la chiamava lui, bianca e rosea, paffuta e profumata come una bella pagnottina appena sfornata, che quando giocava a pettinare le sue bambole, pareva proprio una piccola, tenerissima mamma. E voleva pettinare sempre anche lui; domare i suoi capelli ribelli, ridurgli all’obbedienza le ciocche disordinate della testa.

Era innato, pensava, nelle bambine, quella singolare attrazione per il mondo dell’infanzia. Innato quel gioco a fare la mamma.

E invece adesso quella cara bambina gli appariva insoddisfatta; persa dietro chissà quali chimere. E lui non sopportava quella malinconia. Quei silenzi. Quegli sguardi persi nel vuoto.

Non era pronto ad accettarla così. Però non poteva,  lo sapeva bene, costringerla a restare in eterno la sua bambina, la sua “frittellina.”. Lei, adesso, era una donna… Ma, pensava, se donna doveva essere, non la voleva con la veste raffinata, i gioielli vistosi, sfolgorante e strana.

Se donna doveva essere, che fosse dolce. Non volubile e leggera. Nè malinconica. E non vistosa; una donna bella, ma anche ricca di bellezza interiore. Una donna che sapesse guardare e sorridere della fatuità delle ricchezze del mondo. Una creatura che profumasse di innocenza …  una donna come Ottavia, la bionda figlia di Vesta, seduta su un panchetto al lato opposto al suo, il cui atteggiamento composto e staccato e la cui spiritualità erano per lui un richiamo irresistibile. 

 

Fabio la guardava incantato. Il bel volto non gli appariva che di scorcio, incorniciato dal candido mantello che lasciava sfuggire morbide ciocche di capelli castani da dietro l’orecchio sinistro. Il resto della figura si perdeva in una nuvola bianca su cui splendeva il modesto luccichio di una piccola catena d’oro. Unico gioiello.

Una schiava gli porse una coppa; lui la portò alle labbra con fare distratto, perso nella sua contemplazione. 

Aspettava che Ottavia si voltasse, per guardarla ed essere guardato. Aspettava quello sguardo come un dono meraviglioso, consapevole che il suo animo,  prigioniero di sentimenti vibranti e impetuosi, solo da altrettanto slancio poteva essere placato.

Ottavia si voltò. Con la mano destra ricacciò sotto il velo la ciocca ribelle. Lo sguardo cercò quello di lui. Timidamente.  Gli sorrise. Con le labbra sorrisero anche i begli occhi nocciola. Sorrisero pieni di splendore e silenziosi desideri e quel sorriso raggiunse lo spirito di lui, emozionandolo e sconvolgendolo.

 

Livilla li osservava da lontano. Li scrutava. Il vederli guardarsi in quel modo la esasperava: Ottavia era una Vestale, pensava, nessun uomo poteva sfiorarla mai. Nemmeno con un pensiero.

“Sembrano amici. - diceva a se stessa -  Amici di vecchia data.”

Nessuno aveva nulla da ridire per la disinvoltura di lui e la sorridente fermezza di lei. Nessuno. 

Perchè solo lei “vedeva” quello che sfuggiva agli altri? Possibile, si chiedeva, che agli altri sfuggisse quello che  appariva chiaro come un cielo stellato? Chiaro che Ottavia e Fabio erano attratti irresistibilmente l’uno verso l’altra come il miele attira l’ape?   

Turbata e ferita,  mai, però, avrebbe mostrato la sua sofferenza all’antico compagno di giochi. 

Un’ancella portò bevande fresche; Fabio ne prese una e la offrì a Livilla; lei la tese ad Ottavia e Fabio le fece una carezza sulla guancia.  Come faceva un tempo.

Una carezza, però, che la irritò.

Ma non era irritata con lui, bensì con se stessa.  Distolse lo sguardo dai due e gettò un’occhiata di traverso in direzione della maschera del Bucco, che continuava con i suoi lazzi irriverenti.

Sì, era proprio irritata.

 

Continuò a girare d’intorno lo sguardo fintamente distratto e finì per tuffarsi nelle pupille ardenti di qualcuno che pareva essere in attesa proprio del suo sguardo e di quell’attimo… l’attimo cantato dai poeti, in cui due esseri che non si conoscono si incontrano per la prima volta e i  cui sguardi, scontrandosi, accendono fulmini e saette.  Lo sguardo che fa scoccare  la scintilla.

Era lo sguardo di Milos il gladiatore, alle spalle di Fabio,  che la contemplava già da qualche tempo, immobile in mezzo al giardino, alto e possente: il più alto di tutti; perfino Seilace, il beniamino delle arene, era meno alto di lui.

Livilla non lo conosceva. Non lo aveva mai incontrato nè visto prima, neppure da lontano. Suo padre, il siriano Akab non le aveva mai permesso di mettere piede in un circo o un’arena.

Distolse immediatamente lo sguardo. Non voleva incrociare nuovamente quegli occhi, occhi azzurri e metallici, carichi di bagliori, che procuravano sensazioni così nuove e strane, tali da minacciare il sentimento per Fabio appena sbocciato in lei.

Come osava guardarla in quel modo? E perché ne era così turbata e disturbata? Anche lusingata, in verità!

L’attimo fugace durante il quale aveva incrociato con lui gli occhi, le aveva rivelato un viso decisamente straordinario e dal fascino irresistibile.  Non somigliava a Fabio.

“Posso accompagnarti alla tua casa quando questa allegra compagnia si sarà sciolta?”

Livilla si voltò; Milos era di fronte a lei. Alto, bello, irresistibile e con una giovanile sfrontatezza nello sguardo.

Diversamente da come Fabio guardava Ottavia.

Milos le tese una coppa senza smettere di fissarla; anche lei  lo fissava in silenzio, come incatenata dal fascino ombroso di lui.

 

Osannato, idolatrato da donne di ogni età ed estrazione sociale, lo splendido atleta non era certo abituato alla ritrosia o al rifiuto e tanto meno ad esser messo al confronto con un altro uomo.

“Allora, Egeria, vuoi continuare a fissarmi o dirmi il tuo nome?”

“Mi chiamo Livilla.”

“Bene, Livilla. Brindiamo a noi stessi o al nuovo Cesare?...   E naturalmente al nostro ospite!” aggiunse levando il calice in direzione di Marco Valerio che stava sopraggiungendo.

“Avete fatto amicizia, voi due, vedo. - sorrise il padrone di casa, sollevando anch’egli la coppa - Attenta al nostro grande atleta, piccola Livilla. Lui fa strage di avversari e di cuori femminili!”

“Ah.ah.ah!... - rise il bel gladiatore - E’ lei, la dolce, piccola Egeria, che ha trafitto il cuore di Milos con i luminosi strali scuri!” disse  galantemente il trace.

Livilla prese la coppa e sgranò gli occhi dallo stupore: Milos il gladiatore? Lui era Milos, “suspirium puellarum”, come lo chiamavano tutti?

Un poco assomigliava a Fabio. Sì, a guardarlo meglio, un poco assomigliava a Fabio... Ma no! Non era vero!  Stesso  spalle, braccia solide… Tutta qui la loro rassomiglianza.

La ragazza accostò la coppa alle labbra, sorseggiò piano il vino, dolce ed aromatizzato e intanto pensava che mai aveva visto un volto così straordinariamente avvenente. Forse un poco fanciullesco nel profilo e nella espressione.

Continuò a sorseggiare. Vino bianco e spumoso, spiegava il tribuno, proveniente dai possedimenti ostiensi e adatto al palato di una fanciulla.

In verità, quel dolce “vinello” dall’intenso profumo e con note di frutta fresca e sensazioni di agrumi, come Marco continuava ad insistere, benché annacquato era un po’ traditore. Soprattutto con chi non era abituato ai vigneti laziali. Era dolce e scivolava in gola piacevole, ma poi tornava su, violento come un fulmine, attraverso le vene delle braccia e delle gambe e le giunture delle ginocchia e dei gomiti. Un vinello davvero traditore, che donava ebbrezza ed eccitato stordimento.

“Sei molto gentile, Milos. - disse Livilla - Ma perchè non stai fermo e continui a  saltellarmi intorno? E che cos’è questo fracasso? – continuò, barcollando lievemente - La terra sta di nuovo tremando?”

“Ah, ah,ah!... - rise Milos - Non è la terra che si sta muovendo, bella Egeria! E’ il vino  che  muove te... E quello che senti non è il tuono di un terremoto, ma il passo dei soldati spagnoli che pattugliano la città.”

 

(brano tratto da:  "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses" - presto in libreria

di Mria Pace

edito da EDITRICE MONTECOVELLO