MORTE di NERONE

MORTE  di  NERONE

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Nerone era fuggito. Che cosa aveva fatto precipitare gli eventi?
Stava consumando l’ultimo pasto del giorno quando fu raggiunto dal clamore della rivolta. Intorno a lui c’era ancora il corteggio dei fedelissimi, quello sostenuto con gli avanzi dei suoi fasti  faraonici.
“Vai, Faonte. Vai a sentire da dove proviene questo frastuono.” disse, ma il liberto non ebbe bisogno di lasciare il lettino su cui era sdraiato.
“E’ il popolo, Divino. - rispose addentando un cosciotto di lepre  - E’ il popolo che manifesta malanimo contro Cesare.”
Nerone lo guardò stupito: conosceva l’ostilità di senatori e patrizi contro la sua persona, ma che la ribellione potesse venire dalla  plebe a cui per quattordici anni aveva assicurato Panem et Circenses non lo capiva davvero.
Guardò il suo liberto quasi con astio. A togliere Faonte dall’imbarazzo di una replica provvide l’arrivo di un servo con una lettera che Nerone gli ordinò di leggere.
Questi, uno dei tanti giovani di bell’aspetto di cui Nerone amava circondarsi, cominciò la lettura:  gli eserciti di tutto l’impero, c’era scritto, erano pronti o già in marcia su Roma. Perfino le fedelissime truppe vincitrici a Vesonzio si erano ribellate, manifestando il loro dissenso e offrendo la porpora imperiale al loro generale, Virginio Rufo, che l’aveva rifiutata.
Una collera furibonda colse Nerone. Strappò  a viva forza la lettera dalle mani del servo e la ridusse in tanti pezzettini che gettò in aria restando a guardarli cadere, poi con un calcio rovesciò la tavola intorno alla quale erano raccolti i lettini: cibi e bevande andarono a imbrattare vesti, parrucche e facce terrorizzate e stravolte.
“Che nessuno possa più bere qui dentro!” urlò infine, scaraventando a terra i due meravigliosi calici omerici di cui era tanto geloso e restando a guardare quei capolavori dal mirabile intaglio ridursi in frantumi.
Negli attimi che seguirono la collera lo indusse a rivolgere quel furore incontrollato anche contro se stesso. Cominciò a pestare furiosamente i piedi per terra e ad accompagnare i gesti con grugniti e versi incomprensibili. La faccia paonazza, le guancia tristemente cascanti agli angoli della bocca, sembrava improvvisamente invecchiato.
Passata la prima furia, i cortigiani ripresero a respirare; qualcuno tentò perfino di blandirlo con la lusinga e la lode, così come avevano sempre fatto. Nerone si calmò, ma chiese di restare da solo per prendere la più difficile decisione della sua vita: fuggire fra i Parti o presentarsi al popolo e invocare perdono.
La prima soluzione era più allettante, i Parti erano suoi amici, ma raggiungerli non sarebbe stato facile,così passò alla seconda, ma scartò anche questa, nel timore di non riuscire a raggiungere il Foro ed esser malmenato prima ancora di aprir bocca. Incapace di prendere una decisione rientrò nei suoi appartamenti, si spogliò, indossò la veste da notte e si infilò a letto.
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Il primo a tradire fu Ninfidio Sabino.
Lasciata la Casa Aurea, Sabino spronò il cavallo in direzione del Viminale,  dov’erano stanziati i Castra Praetoria, il braccio armato dei Cesari. Nella oscurità che gli nascondeva l’espressione determinata e cupa, la sua faccia era solo un’ombra scura.
Le tabernae erano chiuse e i velarii tirati sopra tetti e terrazze; pochi i passanti, grida e rumori, invece, provenivano dall’interno di ganeae e thermopolii, nonché  lustrii e lupanarii.
Le sentinelle all’ingresso principale abbassarono le armi all’arrivo del loro Prefetto e sollevarono la destra, lasciandolo passare. Un certo trambusto accolse Sabino, raggiunto l’ampio cortile della caserma: uomini raccolti in crocicchi  che discutevano animatamente; a quell’ora avrebbero dovuto essere quasi tutti consegnati nelle grandi camerate o nel Praetorium, .gli alloggi degli ufficiali.
Qui trovò tre uomini ad attenderlo: un tribuno e due centurioni
che, senza preamboli, gli domandarono:
“E’ al generale Galba che dobbiamo prestare giuramento di fedeltà? Cosa si è stabilito in Curia?”
“Il Senato si è appena sciolto, ma non si è ancora pronunciato per il passaggio dei poteri.” rispose Sabino.
“E Cesare?” domandò il tribuno; misurato e cauto.
L’ufficiale, un uomo sui trent’anni, non desiderava esporsi troppo, volendo nel contempo, però, dimostrare la propria disponibilità e quella dei suoi uomini.
“Il Senato lo ha dichiarato Nemico del Popolo. Vengo da Palazzo: Cesare è fuggito. - mentì Sabino -  Cercherà rifugio fra i Parti, che gli hanno sempre dimostrato fedeltà.”
“Anche Vologese dovrà dichiararsi.” replicò il tribuno.
Vologese era il Re dei Parti.
“Il Senato non si è ancora pronunciato, ma legionari e pretoriani lo hanno fatto. - interloquì uno dei centurioni - Negli accampamenti i soldati gridano alla malora di Nerone e alla fortuna i Galba e i pretoriani aspettano solo un cenno.”
“Un cenno e il donativo!” puntualizzò per lui il tribuno.
“Ed è nel nome del generale Galba – assentì Sabino, accompagnando le parole con gesti affermativi del capo - che io garantisco quel donativo a tutti quelli della Guardia Imperiale che sosterranno la sua nomina.”
Figlio di un liberto, Ninfidio Sabino era un uomo sagace e paziente. Mirava al Principato e possedeva tutte le qualità necessarie per conquistarlo: astuzia, spregiudicatezza e tenacia.
“E’ la parola del generale Galba?” chiese ancora l’ufficiale.
“E’ la mia parola, ma è come fosse quella del generale Galba!” assentì per l’ennesima volta Sabino.
Seguì un breve confabulare fra il tribuno e i due centurioni, poi uno di questi si allontanò e subito dopo si levarono urla e fragori: gli stessi che risuonavano ovunque nella città e che verso mezzanotte svegliarono Nerone da un sonno agitato e tormentato, costringendolo ad andare alla ricerca di un vecchio portafortuna. Lo cercò invano per tutta la camera e fu allora che si accorse, era ormai notte fonda e nessuno rispondeva, di essere da solo.
“Lentulo...– chiamò – Policleto...Spiculo… Perchè nessuno risponde?  Dove siete andati a nascondervi?. - inciampò  nei tappeti. - Per la Cetra di Apollo! Policleto!...  almeno tu rispondi alle chiamate di Cesare. - Policleto era il Segretario generale di palazzo, attaccato alla sua persona come la sua stessa ombra - Per le Furie scatenate! – imprecò, quando scoprì che a far incespicare i suoi piedi non erano i tappeti - La terra trema!… Mi avete lasciato da solo nel pericolo…”
Tornata la calma, il silenzio calato improvviso gli sembrò ancora più minaccioso del frastuono: intorno a lui s’era fatto il vuoto. Schiavi, liberti, pretoriani, tutti lo avevano abbandonato. Non c’era più nessuno! Non c’era più nemmeno la Guardia Personale, i fedeli nubiani. Li chiamò per nome. Uno ad uno: Strabulo, Icelo, Epamino. Fuggiti.
Neppure Macrone ed Egialo, i liberti che aveva inviato la sera precedente ad Ostia, erano tornati.
Preso dal panico cominciò a percorrere gallerie e corridoi, ad entrare e uscire da stanze. S’affacciò ad un terrazzo: la calma surreale che regnava di fuori l’atterrì. Si precipitò dentro e andò a bussare a tutte le  porte. Una soltanto, però, di quelle porte si aprì e il pretoriano affacciato sull’uscio, scuotendo il capo gli chiese: “Sed mori admodum infelix est?” (Ma morire è poi così brutto?)
Lentamente rientrò nei suoi appartamenti.
“Questo chiasso.. cos’è questo vocio fastidioso?” chiese.
“E’ la  voce del tuo popolo, Cesare.” lo fece sussultare una voce alle spalle.
“Faonte!” esclamò con accento rinfrancato, voltandosi.
Faonte ed Epafrodito erano comparsi sull’uscio della stanza e dietro di loro si vedevano le sagome di Sporo e della fedele Atte, le uniche persone che non lo avevano abbandonato.
“Perchè urlano così? -  chiese – Che vogliono?”
“La tua testa, vogliono!... Vogliono la tua testa, Cesare!”
“Ma... ma perchè?” balbettò, mentre un tuono riverberava da lontano illuminando la stanza e la penosa scena.
“Il Senato ti ha dichiarato Nemico Pubblico e i Prefetti del Pretorio, Tigellino e Ninfidio, che ti cullavi in seno come serpi, hanno sputato il loro veleno. - spiegò Faonte facendoglisi vicino - Si sono alleati  contro di te e parteggiano per Galba... – Nerone tentò di replicare, ma l’altro non lo lasciò finire - Il donativo, Cesare. Sei stato barattato con un donativo di milioni di sesterzi da dividersi fra quelli che ti giuravano fedeltà! E’ il Pretorio, Cesare, che crea imperatori e li distrugge.... Li innalza sugli altari e poi li precipita lungo le Gemonie.  Le successioni non sono più questioni del Senato, Cesare. Roma ha scoperto che si può acclamare un imperatore all’interno di un Castra Pretoria: basta un  donativo.”
“Ma è contro ogni regola civile!” replicò Nerone e l’altro:
.“E perché? Anche la tua nomina, Cesare, fu il prezzo di un accordo stabilito in pecunia…”
La voce concitata di Sporo che annunciava l’arrivo dei pretoriani, interruppe il liberto.
“Che.. che cosa mi faranno?” esclamò Nerone.
“Ti trascineranno per le strade e ti percuoteranno con le verghe fino alla morte, poi ti staccheranno la testa dal busto e…”
“No! No!” urlò Nerone.
“Se non vuoi affrontare tutto ciò, - riprese Faonte -  se non vuoi essere umiliato, deriso e ucciso... tu non vuoi questo, vero?”
“Non lo voglio!” rispose Nerone.
“Allora devi morire da uomo e da Cesare! Devi porre fine da te stesso alla tua vita. Solo così potrai evitare disonore al tuo corpo.”
“Ma... - tentò Nerone - con me perirebbe un artista...”
“Artista e Cesare! - replicò l’altro - Muori da artista e da Cesare, Nerone. Muori su un tragico palco, come hai sempre sognato!... Non è questa la morte più gloriosa? Non dicevi così alle rappresentazioni tragiche degli Icari, degli Alcesti e degli Agamennoni, al Circo Massimo?”
“Morirò da artista come da artista ho vissuto! - si esaltò Nerone - Il cofanetto dei veleni. Ti prego, Faonte, amico mio. Fai portare il cofanetto dei veleni che Locusta ha preparato per me.”
“E’ scomparso. - la voce incolore di Atte lo sorprese come una doccia ghiacciata - Il cofanetto dei veleni è scomparso insieme a Locusta.”
“Sco…scomparso? - balbettò Nerone – Co..cosa devo fare?”
“Il pugnale, Nerone. Mio solo bene!” lo esortò la fedele liberta.
“Tuo bene?... Perché mi consigli di morire, se sono il tuo bene?”
“Perché non posso prendere il tuo posto… ma avrò cura del tuo corpo e non permetterò a nessuno di profanarlo, quando gli avrai dato morte onorata... Avrò cura di seppellirlo con onore...”
Un lungo silenzio colmo di tensione, poi Nerone si arrese:
“E sia!… Chi di voi mi renderà il servigio?”
“Il ser... il servigio?...” balbettò Sporo sbiancando in volto.
“Il servigio di aiutarmi a morire. Di darmi morte! Vuoi farlo tu, Faonte o tu, Epafrodito, oppure tu, Sporo? – gli rispose il silenzio più angoscioso – Non potete, vero? Allora chiamate Spiculo! Vorrà reggere questa mano che ha fatto di lui il gladiatore più acclamato di Roma. Mandate a chiamarlo…”
“Spiculo non c’è! - Atte lo flagellò con quel suo lucido dolore - Anche lui come gli altri ha tradito e abbandonato Cesare.”
“Aspetta, Cesare. Forse… forse una speranza c’è ancora.” esclamò Faonte.
”Quale? Dimmi quale, amico mio e io ti prometto...”
“Non promettere, Cesare! Tu non puoi più promettere niente! – lo interruppe il liberto - Piuttosto, ascolta: una salvezza, forse, può offrirla la mia casa in campagna.”
Una provvisoria salvezza!   In gran fretta lasciarono la Domus Aurea così come si trovavano.
Scalzo e in veste da camera, Nerone si gettò addosso e sul capo un mantello di dubbio colore, nascose la zazzera fiammante e si coprì la faccia con un fazzolettone.
Attraverso un passaggio segreto sbucarono in un’ansa dove trovarono ad attenderli quattro cavalli.
In strada nessuno pareva badare a loro e un lungo respiro allargò il petto di Nerone. Puntarono i cavalli in direzione del Clivius Suburbanus, non lontano dalla Porta Esquilina. Davanti a loro l’ammasso dei laterizi e di cataste di legname limitava la vista. Un lampo illuminò la scena e quasi li investì.
Il cavallo di Nerone ebbe uno scarto; il mantello gli scivolò dal capo e un uomo della Guardia Personale, un certo Missizio, fiaccola in mano, lo riconobbe.
“Ave, Cesare!” salutò.
Nerone spronò il cavallo e così fecero gli altri.
“Ma quello è Cesare!... Sì! E’ proprio Cesare e l’altro era Faonte.” la voce del pretoriano li inseguì insieme al fracasso di un nuovo tuono che sconquassò l’aria caricandola di energia.
Al galoppo serrato percorsero le strette itinera, fuori le mura; le fiaccole agli angoli delle strade stentavano a bruciare  sotto la sferza della pioggia. La tempesta ruggiva, insaziata, ma non rallentò la corsa. Avanzarono lungo una strada di cipressi che finiva nella campagna aperta fino a un bosco di eriche; le colline di Cispio occupavano il fondo di quel paesaggio.
Dopo un paio di miglia furono in vista di un sentiero, tra la Via Salaria e la Nomentana, che sprofondava nella collina in un seno oscuro che Faonte chiamava Villa. Sorgeva su uno spiazzo sconvolto e rielaborato da frane, terremoti e alluvioni, tra macerie, rovine di antichi templi, statue monche e frammenti di capitelli.
Quando Faonte aveva acquistato quella proprietà l’aveva chiamata Stige e aveva riadattato il vecchio tempio sconsacrato, destinandolo a quel genere di riunioni orgiastiche a cui non si invitano che amici fidati.  Era un ritiro e un rifugio e vi si accedeva attraverso un’entrata segreta occultata da un canneto le cui radici affondavano in larghe pozzanghere.
“Non è per entrare vivo sottoterra!” scherzò Faonte.
“Qui sotto va bene anche da vivo.” stette allo scherzo Nerone.
Il liberto, che guidava quella processione, si voltò a guardarlo, fece l’atto di dire qualcosa, ma poi tacque e proseguì, infilandosi nello stretto cunicolo che si apriva davanti a loro.
Nerone lo seguì; si gettò la cappa sulle spalle e s’infilò nel budello, strisciando carponi fino a che non raggiunsero un vano.
Uno schiavo  venne loro incontro con una fiaccola accesa. Li fece entrare e prima di chiudere la porta dietro di sé, Faonte gli ordinò di recuperare i cavalli nel timore che qualcuno li avesse seguiti.


Lo schiavo si allontanò per eseguire gli ordini e il gruppo entrò. L’interno non era meno lugubre di fuori e forse era ancora più triste: uno stanzone in fondo al quale c’era un Larario; insieme ai Lari c’era anche una piccola statua di Nerone alla quale il liberto rendeva culto insieme agli antenati.
Nerone ebbe un sorriso nel posarvi lo sguardo.
Dall’atrio passarono direttamente nel tablino, un grande ambiente un po’ più confortevole.
Faonte accese le lucerne appese alle pareti e attizzò il fuoco di un enorme tripode di bronzo, poi mostrò all’ospite un lettuccio con sopra una coperta. Nerone vi si gettò sopra senza una parola, fradicio e tremante di pioggia e Faonte gli buttò addosso un mantello e gli chiese se volesse qualcosa.
Nerone rispose di aver sete e il liberto gli  portò acqua e pane.

“Passeremo sicuri la notte, se quel pretoriano non porterà qui quella folla impazzita. - disse Nerone, riferendosi all’uomo che lo aveva riconosciuto - Da qui potremo organizzare una fuga tra i Parti.  Vologese è mio amico e non mi negherà il suo aiuto né mi farà fare anticamera alla sua porta.”
Atte ed Epafrodite ascoltavano in silenzio e scuotevano il capo. La notte passò relativamente tranquilla e verso l’alba i due schiavi che Faonte aveva spedito in città giunsero con le ultime notizie.
“Il Senato ha decretato la morte di Cesare. - riferì uno dei due - Un gruppo di pretoriani sta venendo a prenderlo. Vivo, sono gli ordini!... Li abbiamo lasciati alla Porta Nomentana. Saranno qui fra poco. Non è tutto. – riprese dopo essersi schiarito la voce - Il Senato vuole che l’esecuzione capitale venga eseguita con tutte le pene  previste.”
“E... quali sono queste pene?” domandò Nerone.
“Quelle che già sai, Cesare.- interloquì Faonte - Dovrai essere trascinato nudo per le strade e battuto con le verghe fino a morirne e poi  sarai scaraventato giù dalle Scale Gemonie e...”
“Oh!... Basta così! Come hanno fatto a scoprire così presto questo nascondiglio? – lo interruppe -  Qualcuno ha tradito?...”
“No, Cesare. Non ci sono traditori, qui!”
“C’è ancora la  Auditrix.”   Nerone tentò un’ultima replica.
“Tardi! La tua Legione, Cesare, non è stata completata,”
“Ma come è possibile? Ho posto tanta cura, io personalmente, in quest’impresa. Non ho trascurato alcun particolare...”
“E’ stato proprio questo il tuo errore, Cesare! - lo interruppe l’altro -Troppa cura nei particolari e troppa poca cura nell’essenziale. Hai pensato al talco per gli atleti e ai truccatori per le amazzoni e hai trascurato armi e approvvigionamenti.  La Auditrix non esiste!”
“Allora dovrò proprio morire?”
Cesare afferrò uno dei due pugnali che aveva portato con sé.
“Dovrai farlo, Cesare, se non vorrai patire torture e infamia e...”
“Oh, ma questa lama… sarà abbastanza tagliente? Saprà ben forare la carne e portarne via lo spirito? - l’uomo che era stata causa di tante morti reggeva il pugnale con mano malferma - Anubi dalla testa di Sciacallo non fa ancora cenno di salire sulla Barca Sacra. Il messaggero della Morte è ancora lontano.”  prese a recitare, incapace di uscire dal suo sogno di artista perfino nel momento estremo - Oh, Osiride,  Signore dell’Eternità. Ti saluto. Vengo a te ben provvisto. Dammi un posto nel Neter-Khert. Che la mia sistemazione sia durevole. Che io...”
“Nerone! Nerone! – lo sollecitò Atte - E’ ora di morire non di recitare. Coraggio, mio bene! Mostra di saper morire da Cesare!”
“Tu, mia Atte, tu mi vuoi bene… tu sola  mi sei rimasta fedele. Vieni con me, dunque! Amami anche nella morte. Amami come Arria amò il suo Peto.... Ah!... Donna mirabile e coraggiosa, che dette coraggio al suo uomo e si conficcò per prima la lama nella carne. Oh, Atte! Dimmi anche tu come Arria: Non dolet!  Io ti seguirò felice e con te affronterò la Palude Stige e l’Averno.”
Arria era la moglie di Cecina Peto, che nel 42 aveva partecipato alla congiura contro l’imperatore Claudio. Nell’apprendere della condanna del marito, si trafisse per prima poi porse il pugnale al marito dicendo: “Non fa male!”
“Oh, Cesare! - esclamò Atte scuotendo il capo – Potesse quello che mi chiedi evitare a te la morte, lo farei con gioia e l’avrei già fatto!... Io vivrò per impedire che il tuo corpo sia oltraggiato e profanato e per piangere sulla tua tomba.”
Nerone riprese in mano il pugnale; lo girò e rigirò tra le dita
“Questi rumori… da dove provengono questi rumori?”
“Sono loro.. gli uomini della Guardia Pretoriana che vengono a prenderti. Vuoi farti trovare ancora vivo?” disse Epafrodito.
“No! – Nerone scosse il capo, alla ricerca di quel coraggio che gli mancava; accostò la punta del pugnale alla gola, ma non riuscì a conficcarla nella carne - Scuotiti,  Nerone – provò a darsi coraggio - Non è da Nerone!.Bisogna essere svegli in tali frangenti. Vituperosa cosa è che io viva in questo modo!  Su! Date inizio ai lamenti funebri... Mi chiamano a morir la moglie, la madre e il padre!” riprese a recitare, sui versi dell’Edipo. I rumori si fecero più vicini. Non più suoni incerti e frammisti al frastuono della tempesta, ma distinti zoccoli di cavalli sui ciottoli, attutiti dalla pioggia e dal fango.
“Equorum cursus velocibus pedibus ad meas aures pervenit...” continuò (Di piè veloci cavalli mi giunge alle orecchie il galoppo!) prima di trovare il coraggio di cacciarsi il pugnale in gola e con l’aiuto di Epafrodito farlo penetrare fino  al manico.
Sotto spinta vigorosa, la porta si spalancò nel mentre e sulla soglia comparve un centurione del Pretorio seguito da pretoriani; Nerone non era ancora spirato e quello volle beffeggiarlo.

“Vengo in tuo soccorso, Cesare!” disse fingendo di essere lì per aiutarlo e correndogli vicino col mantello per arrestare il flusso del sangue e Nerone trovò finalmente forza e dignità.
“Haec fide est?” (E’ questa la fedelta?) disse, stando al gioco, e spirò.
Era l’alba del 9 giugno del 68 d.C.

(brano tratto dal libro di Maria Pace  LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"