Di corsa attraversò il pavimento lastricato del cortile e raggiunse un punto preciso dell’immensa costruzione. Con gesti rapidi, sempre protetto dall’oscurità, si fermò ad armeggiare intorno ad uno dei lastroni di rivestimento esterno della Piramide.
“Proprio qui dietro – pensò sottovoce – dovrebbe trovarsi una di quelle saracinesche che l’architetto NiuserKa ha fatto rinforzare con serramenti di pietra e legno per tenere lontano i ladri.”
NiuserKa, amico di suo padre, era anch’egli un architetto di Ptha. “Povero Niuserka! – sospirò – Se sapesse che proprio il suo discepolo più fidato è stato sorpreso fuori dal cantiere con in
mano i segreti della Piramide del suo Faraone!”
Quei lastroni di durissima pietra erano inviolabili perfino per le attrezzature di cui disponevano i ladri, ma il ragazzo sapeva che si poteva fare affidamento su operai corrotti e preti miscredenti. I ladri sapevano sempre dove scavare e quali vie percorrere per raggiungere tesori nascosti.
“I saccheggiatori, figlio mio, – soleva ripetergli suo padre – non si arrestano davanti ad alcun ostacolo. Siamo noi che dobbiamo
rendere invalicabili gli ostacoli!”
Una volta gli aveva confidato che in gioventù era stato chiamato a testimoniare in un processo contro i ladri della tomba
di una Regina e di aver partecipato ai lavori di traslazione in un’altra tomba di quel che era rimasto del corredo funerario: quella Regina era proprio Hetepheres, madre del faraone Khufu.
Sotto una spinta vigorosa, il varco si aprì e il ragazzo oltrepassò la soglia insieme al suo fardello; appena dentro, spinse il lastrone con entrambe le mani e la “porta” si richiuse rapidamente alle sue spalle.
“Oh, Thot, Tu rendi potente l’Occhio di Horo
che splende sulla fronte di Ra. Io ti chiamo …” riprese.
Parlava sottovoce, quasi un pensiero sussurrato e intanto sfregava l’una contro l’altra le due pietre focaie che aveva con sè. Una miriade di scintille, luminose come stelle, fendettero la fitta oscurità. Il ragazzo vi accostò la torcia che teneva infilata nel corto gonnellino che gli copriva i fianchi e questa prese fuoco con una brusca fiammata.
“Voi tutti, Dei e Dee, fategli la strada.
Fate che giunga a voi Glorioso e ben fornito…”
Il fumo della torcia, acre e pungente, gli ferì gli occhi e la fiamma gettò luce sulle ombre, proiettando la sua figura sulle pareti dello stretto passaggio, un cunicolo alto non più di otto piedi e largo ancora meno, che lo costringeva a stare curvo. Poteva avere quindici anni. Forse sedici. Il corpo era agile e snello e il volto straordinariamente bello. Una massa di ciocche, corte e contorte, trattenute da un cordino di pelle, gli nascondeva la fronte e gli dava quell’aria un po’ selvaggia, tipica della gente del Basso Delta. Aveva labbra carnose e imbronciate e mento arrotondato e volitivo.
Tenendo sollevata la fiaccola, la cui luce moriva, inghiottita dalle tenebre davanti a sé, Djoser proseguì, sempre trascinandosi dietro la stuoia e il suo penoso contenuto. Avanzava a fatica. Il passaggio era stretto ed angusto. Strusciando sul pavimento di terra pressata e compatta, la punta dei tat-beb di corda lasciava dietro di sè un’eco soffocata e cupa.
Il percorso era in ripida pendenza e sprofondava sempre più giù e ad ogni passo aumentava la fatica. L’aria divenne pesante e l’afa opprimente. Sempre più spesso dovette fermarsi e portarsi alle labbra la spugna bagnata che aveva con sè. Non era soltanto la fatica fisica, era soprattutto un disagio dell’animo. Era l’improvviso peso di una solitudine totale che soltanto là sotto poteva raggiungere quelle soglie. Era solo, eppure, continuava ad avvertire l’invisibile presenza, quel respiro alle spalle, e il cuore tornò a battere veloce. Era veramente solo, però. Era l’unico essere vivente ad aggirarsi tra quelle pietre silenziose.
Cominciò a misurare il percorso: venti piedi, ventotto, trenta, quaranta, sessanta. Settanta piedi. Qui un blocco di granito interruppe la sua avanzata.
Mostrando di conoscere assai bene quel tratto, si spostò sulla sinistra. Da lì partiva un corridoio che imboccò senza esitazione. Proseguendo si accorse subito che sul fondo il tappo di chiusura era stato demolito. Non era il solo; ne vide almeno altri tre, i cui frammenti giacevano sparsi per terra. Il corridoio portava in basso, nelle fondamenta della struttura e ancora più giù, nella roccia sottostante. Sulla destra si apriva un vano. Uno dei tanti che avevano consentito ad architetti ed operai di sostare durante i lavori; le pareti recavano scritte in tintura rossa.
“Ecco qui tracce di qualche caposquadra desideroso di far sapere di aver contribuito alla gloria del suo Faraone.” sorrise.
L’ambiente era largo più di due metri ma piuttosto basso; sufficiente, però, per starvi in posizione eretta. Qui si fermò e sollevò la torcia sul capo, poi la infilò tra due sporgenze della parete. La luce, tremula e fumosa, invase l’ambiente, illuminandogli il volto e proiettando la sua figura contro la parete. Saldo sulle gambe, il fisico risaltò in tutta la sua prestanza. Era alto, i fianchi stretti e le spalle atletiche. Al collo portava l’ampio collare degli studenti del Tempio di Ptha.
Sollevò la stuoia e con amorevoli gesti l’appoggiò alla parete occidentale della stanza poi tirò da sotto il perizoma un rotolo di
papiro che accostò alla stuoia: il Libro delle He-kau, il lasciapassare per attraversare l’Aldilà.
“Questo, o mio buon maestro, aiuterà il tuo Ka a trovare la strada per raggiungere il tuo signore, il faraone Khufu. Ti aiuterà a fargli sapere che sei degno di vivere alla sua ombra e ti condurrà sano e salvo fino alla Sala del Giudizio di Osiride.”
“Salute a te, Horo dei Due Orizzonti. – cominciò a pregare -
Salute a te, Anubi
(brano tratto dal libro: DJOSER e lo Scettro di Anubi)