PROLOGO

PROLOGO

 

PROLOGO - La cavalcata della Morte

Un tuono riverberò da lontano annunciando l’approssimarsi del temporale. D’intorno la campagna era deserta. Nessuno si avventurava di notte in quelle zone frequentate, si diceva, da inquietanti visioni: le anime dei dannati, che in quei luoghi erano morti di morte violenta.

In verità, quelle sinistre figure nulla avevano di ultraterreno, poiché non pochi mercanti, costretti ad attraversare quei boschi, erano spesso derubati dei beni e non raramente anche della vita. Gli autori di quelle birbonate non potevano essere i Cavalieri senza pace,  presi da preoccupazioni diverse da quelle dei briganti che infestavano la zona.

Un cavaliere attraversava la radura del bosco.

La figura sepolta in un mantello scuro, doveva avere gli speroni conficcati nei fianchi della bestia, poiché il cavallo galoppava veloce come il vento.

Non c’era luna e nell’oscurità, rotta solo da tuoni e lampi lontani e regolari, il cavaliere si addentrò nel bosco.

Un tuono sconquassò l’aria e un lampo gli illuminò la parte del volto non nascosta dal cappuccio del mantello: un volto di ragazzo dagli occhi pieni del chiarore dei lampi

Prima che la luce del lampo morisse lontano inghiottita dalle tenebre, un drappello di arcieri apparve alle sue spalle.  Erano in molti ed incitavano con sferza e speroni i cavalli che dovevano essere forti e riposati, poiché guadagnarono rapidamente terreno.

Ancora un lampo.

Uno degli arcieri tese l’arco; il fuggiasco si curvò in avanti e la freccia gli passò sopra la testa.

Tornarono le tenebre e con esse la provvisoria salvezza; sopra le cime degli alberi, la luna, nascosta dietro le nuvole, cercava spiragli.

Il cielo si illuminò ancora e questa volta gli arcieri erano troppo vicini per sbagliare mira: una freccia colpì il cavallo, un’altra il cavaliere; in lontananza, l’angoscioso ululato di un cane riempiva la notte.

L’animale stramazzò e il ragazzo cadde con lui.

Gli inseguitori lo raggiunsero e lo caricarono su un cavallo, poi tornarono indietro e al galoppo serrato riattraversarono la foresta e la radura.

La luna, comparsa tra la nuvolaglia che andava diradando, di un rosso così vermiglio da sembrare che qualcuno l’avesse pennellata di sangue, seguì i cavalieri fino a quando la sagoma di un castello turrito non si profilò all’orizzonte.

Zaffate di fumo provenienti dal maniero ferivano le narici: la torre del Mastio bruciava  e crepitava. Alte lingue di fuoco incendiavano il cielo ed inghiottirono la luna: i cavalieri puntarono i cavalli in quella direzione.

 

Proprio nell’ora della mezzanotte, l’ora in cui il negromante conversa coi morti e gli spettri lasciano i

sepolcri, la visione di due inquietanti cavalieri galvanizzò l’aria già scossa dai tuoni.

Quello di sinistra, spaventevole e spettrale, con una grande falce nella mano scarnificata, il teschio e lo scheletro malamente nascosti dall’ampio mantello scuro, era inequivocabilmente la Morte; l’altro, la figura avvolta in una aureola biancastra, era il giovanissimo fuggiasco che i cavalieri avevano inseguito e colpito a morte.

I cavalli, l’uno bianco e l’altro nero come la pece, mandavano sbuffi di fiamme dagli occhi e dalle froge e gli zoccoli, rossi come brace, lasciavano nell’aria una nube di scintille i cui bagliori rischiaravano l’erba della radura, le mura del castello e le ripide e tortuose viuzze del borgo abbarbicato sulla collina.            

Dietro porte e finestre sprangate, strappata ai letti dal fragore di quegli zoccoli, gente terrorizzata e tremante spiava la fantastica cavalcata recitando Ave e battendo i denti.

Nessuna forza terrena sembrava poterla arrestare: né il fossato in cima alla gradinata, che i due cavalieri attraversarono volando, né il ponte levatoio, che si abbassò come per incanto e si rialzò dietro di loro.

I due fantasmi continuarono la loro corsa sfrenata all’interno del castello ormai in fiamme.

Nell’inquieto chiarore  diffuso nella notte da quelle fiamme e sotto gli occhi attoniti dei numerosi soldati affacciati al camminamento di ronda delle mura merlate, i due fantasmi proseguirono per la loro strada.   Attraversarono l’ampio cortile disseminato di feriti e moribondi, doloranti testimoni di una battaglia appena conclusa e puntarono verso il muro di cinta, che si aprì e si richiuse alle loro spalle. Proseguirono la  frenetica corsa lungo la radura dietro il castello e qui, pian piano,  l’inquietante visione andò scomponendosi, fino a  dissolversi in una miriade di minuscole scintille.

 

Dall’alto degli spalti, i piedi radicati al suolo, gli atterriti spettatori e il conte Galeazzo Pisano, Capitano di Ventura e nuovo signore del castello, tennero per lungo tempo ancora gli occhi inchiodati nelle tenebre.

Il silenzio  calò sul castello in fiamme,  profondo e colmo di inquietudine, poi la lunga pausa seguita al clamore, colma di  tensione e terrore, andò mutandosi in un’eccitazione incontrollabile: tutti cominciarono a parlare e gridare insieme, a sopraffarsi con la voce, a dare corpo a paure collettive, grazie all’uso ed all’abuso di parole proprie ed altrui:

“Ma quella... quella era la Morte...” cominciò uno.
”Era proprio Comare Secca…”  assentì un altro

“Il suo soffio mi ha sfiorato...” balbettò un terzo.

“Mi chiamava. - fece seguito una quarta voce - La Morte gridava il mio nome.”

“Ma chi era il cavaliere che cavalcava al fianco di Comare Secca?”  domandò qualcuno e qualcun altro, con voce incerta:

“Era il figlio del conte Gianciotto… a me è sembrato proprio Raniero, il figlio minore del conte Gianciotto.”

“Proprio lui. Credo… sono proprio convinto che fosse lui. Il giovane Raniero.”

“Significa che nessuno è sfuggito all’agguato che il capitano Galeazzo ha teso al fratello. - commentò un altro. - E’ morto anche Raniero, come il conte e madonna Giovanna...”

La comparsa del capitano Galeazzo, alle loro spalle, pose fine a quei deliri: la paura dei vivi,  qualche volta è più forte del timore dei morti!

Il cigolio del ponte levatoio che si alzava  e l’irrompere nel cortile di un drappello di cavalieri al galoppo serrato riassorbì immediatamente ogni attenzione.

Il capitano Galeazzo riconobbe il mantello  di suo nipote Raniero nelle mani di uno dei soldati

Il corpo del ragazzo, sulla groppa del cavallo, penzolava nell’abbandono della morte

 

Gli occhi scuri dell’uomo mandarono lampi di soddisfazione: la bocca, la fronte, il sembiante tutto, adesso, non avevano più nulla della maschera di terrore con cui aveva seguito la terrificante visione.

“E’ morto?” domandò sporgendosi  dall’alto.

“Non ancora, capitano. Ma non ci manca molto. - gli risposero - Dobbiamo portarlo nelle segrete?”

Galeazzo Pisano parve avere una lieve esitazione.
“Alla fucina! - ordinò - Portatelo alla fucina.- ripeté l’ordine, poi scoppiò in una risata isterica - La luna piena!...  La luna piena porta strane visioni. Strane e diaboliche visioni. Ah,ah,ah...-   rise, poi si voltò e lasciò il corridoio di camminamento -  Via. Andiamo a celebrare la vittoria ed a prendere possesso di questo castello.