SEKHET - La Signora della Palude

SEKHET - La Signora della Palude

 

“Te l’ho detto! - replicò Djoser - Ti ho spiegato che tutte le mie Identità mi hanno abbandonato... Perfino l’Ombra, che non si separa mai dal corpo, mi ha lasciato.”

“Sono certo che tornerà.”

“Temo che abbia avuto paura e che sia fuggita.”

“Paura di te? Sarebbe stato peggio se fossi stato tu ad aver paura della tua Ombra, Ah,ah,ah...” rise Mosè, ma tornò subito serio.

“E’ già successo a Cnosso... Lo sai dove si trova Cnosso?”

Djoser accennò di sì.

 “Che cosa è successo a Cnosso?” domandò.

“A Cnosso c’era un uomo che aveva paura di tutto, anche della propria Ombra. Un giorno, era così spaventato dalla propria Ombra, che decise di liberarsene per sempre. Si mise a correre. Corse e corse, ma quella gli stava sempre attaccata dietro. Continuò a correre… correre. Corse fino a farsi scoppiare il cuore e restarne secco... ma mi stai ad ascoltare?”

“Ti ascolto... Ma guarda questa ferita, qui alla spalla.”

“Ferita? Chiami ferita questa puntura di spina?” ironizzò l’amico,  estraendogli dal braccio quella che sembrava una spina

di rovo”.

“Adesso è una spina. Prima, però, quando era conficcata nell’ala della povera rondine era una trave. Ti posso assicurare.”

“Stai delirando? Di quale rondine stai parlando?”

“Della rondine che sono diventato per giungere da questa parte del Campo-di-Canne-Verdi.- spiegò Djoser, poi aggiunse - Non so attraverso quali sentieri sia giunto tu, ma il povero Djoser ha dovuto affrontare pericoli ed insidie per arrivare quaggiù.”

“Una rondine? A ben guardarti, amico, mi sembri un po’ strano, in verità. I tuoi occhi sono strani, le labbra. Anche la nuca è un po’ strana.- lo guardò da capo a piedi - Sei proprio tu, vero? Sei il mio amico Djoser venuto all’appuntamento in questo sogno?”

“Sono proprio io!”

“E mi racconterai tutto? Della rondine, del Campo-delle-Canne…”

“Ti racconterò ogni cosa, ma ora dobbiamo lasciare in tutta fretta questo posto, prima che qualche altro Demone ci prenda nuovamente come bersaglio. Vieni. Andiamo.”

“Uhhh! – fece l’amico - E’ un canto, questo?” domandò.

“Lo sento da quando sono arrivato quaggiù.”

“E’ un canto dolce e melodioso. E viene dalle Canne.” 

“Mi segue da quando ho lasciato la Quinta Arrit.”

“Che cosa?”

“Lascia stare. Ti spiegherò dopo. Ascolta!... E’ davvero dolce e melodioso come dici tu.”

Era un canto meraviglioso, ma intriso di struggente malinconia. Come un crepuscolo sul Delta o la poesia amorosa di un distacco.

“E’ sempre lo stesso suono. - osservò Mosè - Ascolta: Pe-Hat! Pe-Hat! E’ come se invocasse sempre lo stesso nome: Pe-Hat! Pe-Hat!

“Pe-hat – ripeté Djoser - Ma certo! Come ho fatto a non capire prima...” esclamò battendosi una mano sulla fronte.

“Capire cosa?”

“E’ Sekhet, Signora della Palude. E invoca suo figlio Pe-Hat.”

“Sono tuoi amici?” domandò con candore il piccolo.

“Oh, no! - sorrise Djoser - Heb e Sekhet, sono i Divini Geni della Caccia e della Palude del Delta e Pe-hat è il loro figlio.”

“E perchè Sekhet ti ha seguito quaggiù?”

“Non mi ha seguito quaggiù. Sekhet si rifugia qui sotto per sfuggire allo sposo, che è un valente cacciatore.”

“Non ci capisco nulla!” confessò il piccolo con una smorfietta.

“Heb e Seket hanno un figlio, Pe-hat, come ti ho detto, un piccolo Genio amante della caccia come il padre. Un giorno Heb lo portò con sè tra le Paludi del Delta per insegnargli a cacciare, ma Pe-hut si allontanò sulle orme di un cucciolo e si nascose tra i cespugli di papiro, ma gli venne l’infelice idea di fare uno scherzo al padre che lo stava cercando. Non gli riuscì difficile confondersi nella vegetazione e se la rideva divertito, fino a…”

“Fino a che non si trovò infilzato dallo spiedo di papà, - lo interruppe Mosè - come una piccola anatra verde.”

“Già! Il povero Heb, disperato, lo portò da sua madre che, da quel momento, si è rifugiata qua sotto con suo figlio.”

“E di Heb, cosa ne è stato?”

“Di tanto in tanto scende anch’Egli qua Sotto... Forse è proprio andato a caccia con il figlio e la madre lo sta chiamando.”

“Che cosa facciamo, adesso?” domandò Mosè.

“Ci lasceremo guidare dal canto di Sekeht.”

Si lasciarono guidare da quel canto e voltarono le spalle allo stagno e alla Sesta Porta per tornare nuovamente verso la Pehu.

Il  canto  cessò  e un fruscio di foglie, alle spalle, proveniente dal Campo-delle-Canne, li costrinse a girarsi. Non c’era nessuno.

“Hai sentito anche tu un rumore?” domandò Djoser.

“Certo che ho sentito anch’io. Proveniva da quelle canne.” Mosè indicò la muraglia di canne tornata silenziosa.

“Adesso non sento più nulla. Andiamo. Lasciamo questo posto.”

“Aspetta. – Djoser lo fermò con un gesto - Guarda. Guarda!”

La verde muraglia si era improvvisamente aperta sotto i loro occhi attoniti e un fascio di canne dai lunghi steli a pennacchio stava avanzando verso di loro. Avanzava sfiorando appena il suolo, poi emise nell’aria quel suono dolce e malinconico che li aveva ammaliati e condotti fin lì: “Pe-hat! Pe-hat!”

Pietrificati, come ogni cosa che li circondava, i due amici rimasero a guardarlo; alle loro spalle, la Sesta Arrit crepitava come una colata d’oro fuso.

Il fascio di canne si protese fino a sfiorarli, sempre gemendo e sempre emettendo lo stesso richiamo: “Pe-hat! Pe-hat!”

Quando smise di frusciare, la melodia cessò.

“Ma che cosa sta su.. succedendo? - balbettò terrorizzato Mosè – Questo grosso cespu..puglio vuole afferrarci e inghio..tti..tirci. Andiamo via. Fi...fi...filiamo via da qui.”

Il Ratto cercò di scappare, ma i suoi piedi parevano aver fatto radici nel suolo melmoso. Annaspò con le braccia e per evitare di cadere, si aggrappò alla spalla di Djoser.

“Non temere. Non temere. - lo rassicurò Djoser - Se avesse voluto farci del male, la Pehu ci avrebbe inghiottiti già cento volte. Ho camminato sopra le acque senza sprofondare. Sono sfuggito a mostri e spiriti maligni. Perfino adesso, - proseguì dopo una breve pausa riempita da un lungo respiro - i nostri piedi posano sopra sabbie mobili, se non l’hai ancora capito, ma non stiamo sprofondando!”

“Eh!!!...” Mosè si allarmò ancora di più.

Nello stesso istante il fascio di canne si arruffò, si contorse e infine si compattò. Quello che doveva essere il rizoma sotterraneo lungo e cilindrico, assunse la forma di un corpo umano; gli steli divennero braccia e le chiome piumate, finissimi capelli. Di  fronte a loro  c’era   una figura femminile snella e flessuosa: SEKHET.      

Consapevole di trovarsi al cospetto di una Divinità, Djoser pose una mano sulla spalla di Mosè e con una leggera pressione lo invitò a prostrarsi, poi anch’egli fece lo stesso.

La pelle della Dea era verde ma, i lunghi capelli, che spiovevano sulle spalle e sul seno, erano di lapislazzulo. Una tunica di foglie di canne sorretta da rami intrecciati d’erica ed edera, era trattenuta in vita da un tralcio di loto . Fiori di loto ornavano anche i lobi delle orecchie, i polsi e le dita delle mani.

“Sekhet!” invocò Djoser.

“Mi riconosci? - domandò la Dea - Alzati, Djoser, Colui-che-esce-dal-Papiro. Alzatevi, tu e il tuo compagno.”

“Come fa a conoscere il mio Ren?” si chiese il ragazzo.

“Tutto il Mondo-di-Sotto - sorrise Sekhet mostrando di essere nel contempo davanti a lui e dentro di lui -conosce il Nome-segreto del giovane pellegrino che sta attraversando queste strade.”

Djoser si alzò e anche il Ratto scattò in piedi. Restò muto, ma era chiaro che aveva una gran voglia di far domande.

“Il tuo amico, - melodiò la voce della Dea, rivolta proprio a lui – sa perché il mio canto vi ha condotti qui?”

“Per la Barba di Osiride! E come faccio a saperlo, Verde Signora del Loto e del Papiro? Il povero Mosè non sa nemmeno perché è lui stesso a trovarsi qui!” rispose prontamente il Ratto, ma altrettanto prontamente s’intimorì per la propria audacia.

La Dea, però, sorrise, invece di adirarsi.

“Assomigli a mio figlio Pe-Hut. - disse - Neppure lui riesce mai a controllare l’impulsività della giovane età. Non temere. Non sono in collera con Colui-che-viene-dalle-acque-in-Tempesta” Per la prima volta in vita sua, il piccolo Mosè rimase senza parole: Sekhet lo aveva chiamato con il suo nome segreto.

“Il mio amico non lo sa, o Divina Sekhet, Signora delle Paludi, ma nemmeno io lo so.” interloquì Djoser; Sekhet tornò a convergere su di lui il suo sguardo di sfavillii turchesi.

“Il   piccolo Pe-hut era a caccia, quando vide quel Demone puntare il suo arco contro una rondine in volo lontano dalle compagne.”

“Ero io quella rondine.”

“Lo so. Il mio piccolo ha colpito il Demone con la sua fionda.”

“Ho sentito il grido di dolore del Demone e l’ho visto correre verso i canneti, inseguito da un bambino armato di fionda. Vorrei tanto poter ringraziare tuo figlio, Divina Sekhet!”

“E’ questa la missione che voglio affidarti.- rispose la Dea - Mio figlio non è ancora tornato dalla caccia. Temo che qualcuno dei suoi nemici, amici di quel Demone, possa avergli recato danno.”

Djoser   era sinceramente dispiaciuto per quello che, a causa sua, poteva essere capitato al figlio della Signora della Palude.

“Mi metterò subito sulle sue orme, Divina Sekhet, e quando avrò ritrovato il piccolo Pe-hut, mi prenderò cura di Lui.”

“Riportami mio figlio. - disse la Dea - Il mio canto ti guiderà!”

Ciò detto, la figura si scompose e i frammenti si riunirono per riformare il grosso fascio di canne che, strisciando lentamente all’indietro in un fruscio melodioso e malinconico, rientrò nel Campo. “Pe-hut! Pe-hut!...” Il canto riecheggiò nell’aria